Tra le mostre dedicate a «storie brasiliane» (dopo il periodo di chiusura dovuto all’emergenza sanitaria, riapre dal 2 al 5 febbraio per poi volare a Barcellona) c’è quella che presenta Claudia Andujar: la lotta Yanomami alla Triennale di Milano (in partnership con la Fondation Cartier pour l’art contemporain, al momento chiusa a causa della emergenza sanitaria Covid, questo il sito  https://claudia-andujar.fondationcartier.com/it). La rassegna presenta una estesa retrospettiva del lavoro della fotografa Claudia Andujar dedicato agli Yanomami, popolazione indigena brasiliana di cui si è sentito parlare frequentemente negli ultimi mesi a causa delle politiche del governo contrarie alla loro tutela per la protezione dal coronavirus, così come per i danni provocati dall’estrazione dei minerali nelle loro terre. Una storia che si riteneva archiviata ma che è tornata tragicamente attuale.

Nata in Svizzera nel 1931 da padre ungherese morto nel campo di concentramento di Dachau e da una madre poco presente, a 16 anni Andujar si trasferì a New York da uno zio paterno, per poi giungere in Brasile nel 1955 e trovare nel popolo Yanomami il suo senso di appartenenza. Dichiarò di aver iniziato a fotografare proprio perché la sua scarsa conoscenza del portoghese non le permetteva di esprimersi al meglio. Iniziò poi la collaborazione con diverse riviste internazionali, tra cui Life, Look, Fortune e The New York Times Magazine e, dal 1967, con la rivista brasiliana Realidade che, nel 1970, le commissionerà il primo reportage del popolo Yanomami. A questo seguiranno altri lavori grazie a una borsa di studio della Guggenheim Foudation – con cui lavorerà ai margini del fiume Catrimani in Roraima – e un’altra elargita dalla Fapesp.

[object Object], 1974. Collection of the artist. © Claudia Andujar

 

In questo periodo di convivenza, la fotografa collezionò immagini di vita quotidiana nella foresta e nella maloca (abitazione collettiva), testimoniò rituali sciamanici e produsse una serie ritratti intimisti che esaltavano la bellezza delle persone. Il suo lavoro era caratterizzato da un sentimento di empatia, un interesse autentico, mosso dalla volontà di conoscere – e riconoscere – l’altro piuttosto che dall’esotismo o dal giudizio.
Appartengono a questo primo momento le immagini a colori e di sperimentazione, quando Andujar era influenzata anche dal lavoro del marito e collega, il fotografo americano George Love.

Quanto più la sua storia si intrecciava con quella di resistenza del popolo Yanomami tanto più la sua arte si coniugava con la politica. «A un certo punto ho capito che l’arte non avrebbe salvato queste persone», si convinse Andujar. E così, l’esperienza artistica e professionale fu abbandonata per dedicarsi alla lotta militante: al centro, c’era la demarcazione delle terre indigene. Fu così che, nel 1978, venne creata la Comissão pela Criação do Parque Yanomami (Ccpy) insieme al gesuita italiano Carlo Zacquini, e all’antropologo francese Bruce Albert a cui più tardi si aggiungeranno l’antropologo Beto Ricardo, co-fondatore dell’Insituto Socio Ambiental Isa di São Paulo e l’antropologa Alcida Ramos.

In risposta alle denunce portate avanti dalla Ccpy e alla pressione internazionale, amplificata durante la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente tenutasi a Rio de Janeiro, nel 1992 il governo brasiliano riconobbe e omologò la Terra Indigena Yanomami (copre un territorio pari a 96mila mq), due volte circa l’estensione della Svizzera, luogo natale di Andujar. È proprio questo territorio oggi, a trovarsi nuovamente in gravissimo rischio dovuto alle invasioni dei cercatori d’oro, legittimati dal ministero dell’ambiente del governo federale sostenuto dalla bancata ruralista – la rappresentanza parlamentare che difende gli interessi dei proprietari terrieri e delle imprese dell’agrobusiness brasiliano – ma anche internazionali, come hanno dimostrato dagli investimenti europei nei territori dell’Amazonia e Cerrado brasiliano.

A questo periodo di militanza, risalgono le immagini della serie Marcados, scattate per le cartelle cliniche delle squadre di vaccinazione intervenute per contenere le epidemie di morbillo e poliomielite causate dai lavori della costruzione della Perimetrale Norte Br 210 – un’autostrada mai conclusa che attraversa i territori Yanomami. Poiché gli Yanomami all’epoca erano riconosciuti per gradi di parentela e non per nome proprio, era necessario identificarli per creare un registro delle vaccinazione.

La serie è attualmente considerata uno dei lavori più importanti dell’arte contemporanea brasiliana, mentre la fotografa dichiara: «Non me lo sarei mai aspettata… Dato che gli Yanomami avevano molti problemi di salute, sono tornata lì con due medici. Siamo andati di villaggio in villaggio per oltre un anno. Ora c’è chi giudica questo lavoro come una cosa in sé, come fotografia d’arte».

Ma è proprio questa dualità del percorso artistico e militante di Claudia Andujar che la curatela di Thyago Nogueira, insieme all’allestimento negli spazi della Triennale di Milano (online fino a riapertura) hanno saputo esaltare nella rassegna allestita a Milano. Presentata per la prima volta in Brasile, si è poi spostata in Francia e in Italia. E dovrebbe proseguire, si spera con una proroga che ne possa permettere la visita ancora qui, verso la Spagna in primavera. Nella sua curatela originale Nogueira, coordinatore dell’area della fotografia contemporanea dell’Instituto Moreira Sales-Ims, si è avvalso della consulenza dell’Istituto socioambientale della Hutukara Associação Yanomami (Hay), il cui presidente è David Kopenawa (autore insieme a Bruce Albert del libro A queda do céu: Palavras de um xamã yanomami).

Il curatore ha tenuto a sottolineare che «quando la mostra è stata concepita e allestita per la prima volta in Brasile nel 2018, l’intenzione era di offrire un riconoscimento al lavoro di Claudia Andujar. Non ci si immaginava che Bolsonaro sarebbe stato eletto e che avremmo assistito al ritorno di politiche genocide contro i popoli indigeni brasiliani». Ha inoltre spiegato come «l’utilizzo della rappresentazione non abbia mai fatto parte della cultura yanomami, dato che alla loro morte distruggono tutto ciò che rimanda ad essi, perché lo spirito possa raggiungere il retro del cielo. L’unica ragione per cui ha senso la retrospettiva è l’impegno etico della fotografa nel far riflettere su come ci relazioniamo agli altri». Oltretutto, la causa ambientalista europea pecca di una visione limitata: «L’Amazzonia – ha continuato – non è solo vegetazione: riguarda persone, animali, convivenza e conoscenza».

Alla luce della attuale situazione socio-politica brasiliana, l’esposizione incorpora la principale funzione dell’arte di Andujar: denunciare le violazioni che si stanno perpetrando in Amazzonia, creando consapevolezza nel visitatore, al di là del valore estetico delle immagini stesse. La nuova versione della sua installazione Genocídio do Yanomami: morte do Brasil (1989/2018) è un manifesto audiovisivo originariamente presentato al Masp di São Paulo nel 1989 per protestare contro decreto del governo che voleva la suddivisione del terreno Yanomami in 19 micro-riserve separate. L’istallazione presenta più di 300 immagini al fine di raccontare un mondo progressivamente devastato dal modello di sviluppo occidentale. Nel 1991, in seguito a un viaggio di Kopenawa e Andujar negli Stati Uniti (dove incontrarono il segretario Onu, l’Osa e Wb), e a una mobilitazione internazionale, l’allora presidente brasiliano Collor abrogò quel decreto.

Tra i video, c’è anche Povo do Sangue, Povo da Lua di Marcelo G. Tassara (1984) e, fra i materiali, il libro fotografico Amazônia realizzato nel 1978 in collaborazione con George Love, con design dell’artista Wesley Duke Lee e grazie all’audacia dell’editor Regastein Rocha, che ha sfidato la dittatura militare ordinando una prefazione (in seguito censurata) al poeta amazzonico Thiago de Mello. Il libro, infatti, fu sequestrato.
Il filmato di otto minuti realizzato dall’Instituto Moreira Sales nel 2018, insieme al documentario Gyuri della regista brasiliana Mariana Lacerda, presentato nella versione ridotta di una video istallazione, contribuiscono invece a raccontare la storia personale di amicizia e tenacia di Claudia Andujar, Carlo Zacquini e Davi Kopenawa.

Claudia Andujar ha fatto molto per gli Yanomami e per gli Yanomami Claudia è una di loro. Le sue foto hanno fatto il giro del mondo. Quei volti sereni, orgogliosi e coraggiosi hanno contribuito a cancellare l’impressione di «gente feroce» diffusa da non pochi antropologi all’epoca dei primi contatti. Dopo 50 anni stanno nuovamente aiutando a dare visibilità alla causa mai risolta del popolo Yanomami, e di tutti i loro parenti indigeni, e vogliono richiamare l’attenzione sulla brutalità dell’attuale politica del governo brasiliano. Quando sarà possibile nell’andare a vedere la mostra si tengano in mente le parole di Claudia:«Non so se sono un artista, né me lo chiedo. Se la fotografia è stata un modo per far conoscere e rispettare gli indios, considero questa cosa la più importante. Voglio che la fotografia degli Yanomami sia una visione di ciò che vedo in loro».

A giugno scorso è stata lanciata la campagna Fora Garimpo Fora Covid. Oltre 439mila firme che chiedevano al governo di impedire il genocidio dei popoli Yanomami e Ye’kwana sono state consegnate a dicembre al Congresso brasiliano. La galleria Vermelho di São Paulo che rappresenta il lavoro di Claudia Andujar, divide il ricavato delle vendite tra la fotografa, l’associazione Hutukara e la galleria stessa.