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Claire-Louise Bennett, sequenze narrative di un autoritratto, tra una riga e l’altra

Claire-Louise Bennett, sequenze narrative di un autoritratto, tra una riga e l’altraPatrick Procktor, «Juliet Benson», 1968

Scrittrici inglesi Muovendosi senza sosta dall’io al noi, dal tu impersonale alla terza persona, la protagonista innominata di «Cassa 19» racconta di sé, affidando allo stile ogni sua rivelazione: da Bompiani

Pubblicato circa un anno faEdizione del 8 ottobre 2023

Da alcuni anni, nel mondo anglosassone come in Francia e, di recente anche in Italia, si è registrato uno spostamento della narrativa verso il proprio sé, accompagnata troppo spesso da una sovrapposizione, da parte della critica meno avveduta e attenta, tra il genere del memoir e quella che, con prestito dalla lingua inglese, viene definita autofiction. La pubblicazione da parte di Bompiani di Cassa 19, secondo romanzo di Claire-Louise Bennett dopo il notevole Stagno, del 2019 (traduzione, eccellente, di Tommaso Pincio, pp. 228, € 20,00) può rappresentare un’occasione utile per fare il punto su un genere o una modalità narrativa che contiene al proprio interno diverse varianti, tutte però accomunate dalla volontà di tornare a far coincidere un complesso lavoro sulla lingua con una politicità dello sguardo che, per troppo tempo, è stata considerata prerogativa quasi esclusiva delle opere «di trama».

La protagonista, nonché voce narrante, di Cassa 19 non ci dice mai il suo nome, e le informazioni che, nel corso del romanzo, ricaviamo sul suo conto sono frammentarie, a dir poco. Sappiamo che, proprio come l’autrice, è originaria dell’Inghilterra sudorientale e a un certo punto della sua vita si è trasferita in Irlanda; che ha lavorato come cassiera in un supermercato; che ha intrattenuto una serie di relazioni spesso distruttive con il mondo maschile; che sin dall’infanzia ha un rapporto potente ed esclusivo con la parola scritta; che la sua vita è scandita, prima ancora che dal lavoro e dal confronto diretto con il consorzio umano o con i luoghi abitati, da una costante immersione nella letteratura, letta e praticata.

L’incipit non lascia dubbi in proposito: ci troviamo davanti a una prima persona plurale, e occorrerà qualche pagina per comprendere che la protagonista senza nome ha la tendenza a parlare di sé muovendosi incessantemente dall’io, al noi, al tu impersonale, alla terza persona. «All’inizio», dichiara, «prendevamo in prestito quanti più libri potevamo, ovvio. Il massimo. Dunque otto libri probabilmente. Il massimo è sempre sei libri oppure otto libri o dodici libri. A meno che non si tratti di una collezione speciale, ovvio, perché in quel caso il massimo può essere di soli quattro libri».

Durante gli anni di scuola, la passione per la lettura si trasforma – o meglio, viene affiancata – dall’invenzione di storie: un giorno la protagonista – che stavolta parla di sé in terza persona – cerca di ricreare a memoria il volto dell’insegnante più amato dai suoi compagni di classe, ma deve fare i conti con la propria totale incapacità di disegnare. Il ritratto viene fuori tutto sbagliato: «un occhio era molto più grande dell’altro, sarebbe stato benissimo in una creatura del tutto diversa, e i capelli, i suoi bei capelli ondulati, erano dappertutto, se ne andavano di qua e di là, un pasticcio che la faceva bruciare di vergogna».

Visto il risultato catastrofico, l’unica risoluzione da prendere sarebbe cancellare il ritratto, ed è proprio ciò che la protagonista cerca di fare: «Ci scarabocchiò sopra, ci girò e rigirò intorno con la penna, forgiando strette spirali distruttive, una miriade di sgorbi. Davvero strano, mulinare il pugno a quel modo – non voleva saperne di smettere. Il pugno non si staccava dalla pagina e mulinava spingendo la punta della biro a tracciare sulla carta una linea ondulata che si librava in esuberanti circonvoluzioni, costringendo l’angustia delle strette spirali che erano una sorta di lana d’acciaio a obliterare lo sgraziato obbrobrio della faccia sottostante, e poi le circonvoluzioni si acquietarono, erano più calme adesso, sì, sembravano essersi calmate, erano di nuovo una linea, una linea regolare che si rilassò sulla pagina finché non si scisse dando vita a parole, poche parole soltanto, poi qualche altra parola, e le parole si misero a raccontare una storia che sembrava esser lì fin dall’inizio».

La scrittura è quindi evoluzione sotto forma di sequenza narrativa del ritratto, la cui immediatezza non è praticabile ed è «tutta sbagliata»: le cose si raccontano per via indiretta, la scrittura del sé nega a questo sé perfino il nome e il racconto ruota ossessivamente intorno ai libri degli altri. La parte più corposa del romanzo è dedicata per metà al racconto sul quale la protagonista lavora da anni, e per metà ai libri che legge – dai diari di Anaïs Nin a Camera con vista di Forster – e che utilizza per riflettere sulla propria stessa vita.

Il testo che la voce narrante sta scrivendo si svolge in un tempo oscillante tra l’Ottocento, il Rinascimento e una dimensione più contemporanea, e in uno spazio che, a seconda delle oscillazioni umorali del protagonista, un gentiluomo ricco e stravagante che si chiama Tarquinio Superbo, può essere Vienna o Venezia. Tarquinio acquista un’intera biblioteca di volumi dal dorso elegante, salvo scoprire che ognuno di essi contiene solo pagine bianche. Spetta al Dottore, il secondo, fantomatico protagonista della storia, svelare a Tarquinio l’arcano: in realtà in uno e uno solo dei volumi c’è una pagina non bianca, che contiene un’unica frase. Una frase, chiarisce il dottore, che però contiene tutto, al punto che «chiunque ci si imbatta conosce un risveglio totale e immediato». La ricerca della frase che contiene tutto e nella quale la parola dispiega a pieno la propria potenza è del resto la vera missione della protagonista, che la spinge a indagare il mondo dei libri alla ricerca di una rivelazione altrettanto potente.

Nel raccontare una lunga sequenza di letture, Claire-Louise Bennett trasforma l’oggetto narrativo che sta costruendo di pagina in pagina in un saggio di storia e critica letteraria. Scorrono davanti ai nostri occhi pagine e pagine nelle quali la grande narrativa, inglese e internazionale, viene rivisitata alla ricerca di una lezione ultima e imprescindibile, di una voce nella quale la protagonista, epifanicamente, possa identificarsi. E la voce è quella di Ann Quin, scrittrice inglese morta suicida a soli trentasette anni dopo aver perseguito un corto circuito virtuoso tra lo sperimentalismo di Beckett e del nouveau roman e i temi sociali e politici che, negli anni Sessanta, erano proposti, in forma realistica, dalla generazione degli Angry Young Men.

Quando, parlando di Quin, la protagonista fa riferimento al «sospetto e al disprezzo snobistico di alcuni critici» e alla loro «riluttanza a riconoscerle una radicata capacità di scrivere con naturalezza in uno stile frammentato e atomizzato che passa con disinvoltura da un registro all’altro», e sottolinea invece quanto questo stile frammentato, ben lungi dall’esaurirsi in uno sperimentalismo freddo, sia il perfetto correlativo «dell’esperienza di vita di una donna della classe operaia negli anni Sessanta», è quasi impossibile non pensare che, in tralice, sia la stessa Bennett a parlare, e a offrirci un punto d’accesso privilegiato per comprendere la specificità del suo lavoro sull’autofiction, e la forza insieme stilistica e politica che le pagine più belle di Cassa 19 (come già di Stagno) riescono a evocare.

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