La Convenzione costituzionale ha concluso i lavori. Il presidente Gabriel Boric ha firmato il decreto di convocazione del plebiscito sulla nuova Costituzione, sarà il prossimo 4 settembre. Parte ufficialmente la campagna per l’Apruebo o per il Rechazo, approvo o rifiuto. E parte sotto i peggiori auspici. I dati dell’ultimo sondaggio sembrano addirittura non lasciare scampo: il 44,4% della popolazione è infatti pronta a votare No, contro appena il 25% di voti favorevoli e un 30% di indecisi. A meno di una rimonta quasi miracolosa, dunque, il lavoro di un intero anno per mandare al macero la Costituzione di Pinochet rischia di andare in fumo, con conseguenze difficilmente prevedibili.

IL VANTAGGIO dei No ha sicuramente molto a che fare con la disillusione di diversi settori nei confronti del governo Boric, partito con aspettative troppo alte per essere mantenute. Neppure il consistente aumento del salario minimo, il più grande degli ultimi 29 anni (pari a 58 dollari), poteva bastare a chi sperava che, con la vittoria di Boric, tutto fosse destinato a cambiare. Ma se il Rechazo è in così netto vantaggio, è anche perché la Convenzione, assorbita dall’arduo compito di ultimare la redazione del testo nei termini stabiliti, ha perso totalmente la sfida della comunicazione: di fronte alla campagna della destra, efficacissima nel seminare timori tra la popolazione – dal presunto indigenismo senza controllo alle altrettanto infondate minacce all’unità del paese – è mancata un’opera di informazione chiara, semplice e diretta.

CON IL RISULTATO che se tra i ceti alti sono apparsi in maniera chiara i danni – più o meno rilevanti secondo i punti di vista – che la nuova Carta comporterebbe per i loro interessi, sono rimasti molto vaghi i vantaggi effettivi per i settori più vulnerabili.
Che non si tratti della migliore delle Costituzioni possibili era, del resto, già chiaro dall’accordo tra tutte le forze politiche che aveva reso possibile la nascita della Convenzione, condizionata dal contestatissimo quorum dei due terzi, grazie a cui una minoranza del 33% legata agli interessi della classe imprenditoriale ha potuto esercitare il suo potere di veto contro qualunque cambiamento reale diretto a superare il modello neoliberista.
Non a caso a incontrare le maggiori difficoltà è stata proprio la Commissione sull’ambiente e il modello economico, le cui proposte più innovative sono state tutte bocciate in plenaria. E se sono passati punti importanti – ma piuttosto vaghi – come il dovere dello Stato di proteggere la natura, l’assunzione della crisi climatica ed ecologica e il riconoscimento degli animali come soggetti di diritto, è forte il rischio che tutto rimanga lettera morta.

UN ABISSO, tuttavia, separa l’attuale Costituzione – «scritta da quattro generali», secondo l’espressione di Boric – dalla versione definitiva della nuova Carta, che trasformerebbe il Cile, come stabilisce il primo articolo, in «uno Stato sociale e democratico di diritto», e «plurinazionale, interculturale, regionale ed ecologico». E in tal senso non è certo apparsa ingiustificata la soddisfazione espressa dalla presidente della Convenzione María Elisa Quinteros al termine dell’ultima votazione in plenaria: «Ci siamo riusciti, nonostante tutto ciò che abbiamo sofferto e i diversi ostacoli che abbiamo dovuto affrontare. Mi congratulo con voi, perché dopo un anno così duro e pieno di difficoltà, dopo tanti dibattiti estenuanti, ma anche dopo molte giornate ricche di soddisfazione, abbiamo rispettato i termini».
Composta da 388 articoli e 56 disposizioni transitorie, la nuova Carta non è infatti solo la prima esperienza di elaborazione democratica della Costituzione in Cile, ma segna anche un superamento di quei caratteri altamente apprezzati dall’estrema destra: l’iperpresidenzialismo, il centralismo, l’ipertrofico diritto di proprietà a scapito dei diritti sociali universali.

SI APRE la strada, che sarà comunque lunga e impervia, a trasformazioni profonde come quelle relative alla regionalizzazione dello Stato cileno, alla plurinazionalità, al pluralismo giuridico (con il riconoscimento dei sistemi giuridici dei popoli originari) o all’autonomia territoriale indigena.