Internazionale

«Chiusi in casa, condividiamo il poco cibo e la paura»

«Chiusi in casa, condividiamo il poco cibo e la paura»Una veduta di Khartoum in stato di guerra – Ap

La testimonianza da Khartoum Suliman Ahmed ospita due nuclei familiari e due studenti bersaglio dei janjaweed

Pubblicato più di un anno faEdizione del 25 aprile 2023

«Il popolo sudanese in questa guerra di generali non è previsto». Lo sconforto di Suliman Ahmed, che in tante vite collezionate ne ha archiviata anche una da rifugiato politico in Italia tra il 2004 e il 2010, arriva forte da Khartoum anche nella totale instabilità della connessione, nuovamente collassata nella giornata di ieri.

Senza più cibo né acqua, con l’elettricità a singhiozzo, presi nel mezzo dei combattimenti e costretti a scavare a mani nude sotto le macerie delle abitazioni in cerca dei superstiti, come è successo ieri pomeriggio a Kalakla, un sobborgo meridionale di Khartoum, dopo un raid dell’aviazione di Al Burhan che cerca di in tutti i modi di stanare gli uomini di Hemeti. Nel totale disprezzo delle due fazioni in lotta per il potere e delle istituzioni internazionali che chiudono i battenti.

GLI ABITANTI DI KHARTOUM nel caso non si fosse capito sono allo stremo. Ora che la maggior parte degli stranieri ha lasciato il paese con il sollievo di governi e famiglie – Ieri è toccato al resto del mondo, nigeriani e sudafricani, algerini, indiani e indonesiani, indirizzati dai rispettivi governi perlopiù verso Port Sudan, in vista di una via di fuga marittima -, la situazione di chi resta in città si fa al contrario disperata.

Suliman vive non distante dall’aeroporto, dove ieri mattina siera ripreso a combattere aspramente. «Da 10 giorni – racconta – viviamo chiusi in casa con altri due nuclei famigliari che hanno lasciato zone divenute troppo pericolose. In tutto ora siamo 15 adulti, 6 bambini e due amici di mio figlio costretti a fuggire dallo studentato in cui vivevano, sono arrivati qui sanguinanti dopo uno scontro avuto sulla strada con un gruppo di janjaweed».

Come dire, la cosa migliore in questo momento a Khartoum è stare in famiglia, anche se non è la tua. «Condividiamo la paura e il nostro “piccolo mangiare” – prosegue Suliman – ma le scorte stanno finendo. Da giorni hanno chiuso anche gli ultimi mercatini di quartiere vitali per le famiglie. Nel frattempo è stato bombardato anche il grande mercato generale di Bahari (la terza “capitale” dopo Khartoum e Omdurman, alla confluenza tra Nilo Azzurro e Bianco, ndr), dove si riforniscono i commercianti all’ingrosso…».

LE OPERAZIONI CHE HANNO CONSENTITO A tanti stranieri di lasciare il Sudan hanno avuto sulla vita quotidiana degli abitanti di Khartoum anche un riflesso positivo, moderato e assai momentaneo: per poche ore in città è sembrato di vivere qualcosa che somigliava a una tregua, la prima dall’inizio della cris. «Per un po’ miracolosamente le armi hanno taciuto – dice Suliman – ma uscire era ancora pericoloso: oltre agli scontri armati nelle strade c’è un clima di impunità che aumenta le probabilità che già c’erano prima di essere aggredito a scopo di rapina». Oltretutto la cittadinanza non aveva le stesse informazioni fornite alle cancellerie occidentali per il buon esito dell’evacuazione. E così «siamo rimasti chiusi in casa».

Ieri mattina erano già ripresi gli scontri e gli scambi di artiglieria intorno all’aeroporto, e di nuovo movimenti di truppe e armamenti e armi pesanti sotto le finestre di Suliman, dove troneggiano i resti di «un tank delle Rsf centrato da un razzo nei giorni scorsi».

TRA I VIDEO CIRCOLATI nel lockdown di guerra dei sudanesi quelle di un uomo di Nyala, la città del Darfur meridionale di cui è originario Suliman e che in questi giorni non è stata risparmiata dalla guerra, con corollario di saccheggi e vendette che hanno riportato indietro le lancette di parecchi anni. Vestito di bianco immacolato si aggira tra i resti fumanti della sua(ex) attività nel mercato locale, maledicendo i due contendenti. In questo momento ai sudanesi non resta molto altro da fare.

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