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«Chigi sono io». Meloni bacchetta La Russa e fa scudo a Delmastro

«Chigi sono io». Meloni bacchetta La Russa e fa scudo a DelmastroGiorgia Meloni – LaPresse

Cronache di palazzo La presidente del consiglio parla di giustizia e rivendica la nota informale contro le toghe. Niente scontri, ma alle sue condizioni

Pubblicato più di un anno faEdizione del 13 luglio 2023

Molla La Russa. Difende Delmastro con passione. Fa scudo anche a Santanchè, ma con l’espressione di chi deve e non vorrebbe. Dopo una plumbea settimana di silenzio seguita al comunicato guerresco firmato “fonti”, Giorgia Meloni si decide a dire la sua sull’intero capitolo giustizia. Che le costi un surplus di tensione è reso evidente dall’espressione sofferente: saranno pure le scarpe che «fanno malissimo», come le scappa sussurrato a microfono aperto, ma si vede che la scarpetta si allarga e si restringe a seconda dell’argomento trattato in conferenza stampa da Vilnius. Non è mai tanto scomoda come quando si parla di toghe e indagati.

LA TENSIONE NON implica reticenza. La rivendicazione del comunicato che ha dato fuoco alla prateria è secca: «Mi identifico con le fonti di Chigi, certo». Meloni è altrettanto esplicita sui tre casi alla ribalta. Di La Russa, «da madre», comprende la sofferenza, però «io non sarei intervenuta, tendo a solidarizzare per natura con una ragazza che ritiene di denunciare e non mi pongo il problema dei tempi». Una sillaba in più e sarebbe stata rottura, ma anche così la sconfessione è piena.

L’imputazione coattiva nei confronti di un sottosegretario, «a fronte di una richiesta di archiviazione da parte di una procura non abituata a fare sconti», Meloni la considera un’anomalia: «È giuridicamente lecita ma è un fatto che non avviene quasi mai, quindi è una scelta ed è una questione sicuramente politica che mi ha molto colpita e a cui guardo con stupore». Pronunciate nel giorno in cui la corrente della magistratura Area invoca l’intervento del Csm con l’apertura di una pratica a tutela della gip Emanuela Attura che ha deciso l’imputazione coattiva, sono parole che rivelano massima determinazione nel difendere il sottosegretario.

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ANCHE SUL CASO SANTANCHÈ lo scudo della premier c’è, ma ben diversamente motivato. Si concentra su quella che definisce «una questione procedurale», in concreto «l’anomalia di un’indagine notificata non al ministro ma a un quotidiano», tra l’altro il cui proprietario «non mi pare che possa fare la morale quanto a debiti». Ripete che non è una cosa normale e il fatto che sia già successo non la rende meno anormale. Non che abbia torto però anche mentire al Parlamento e al Paese senza uno straccio di reazione da parte del capo del governo tanto normale non è. Su questo però Meloni glissa.

Nel merito la difesa è meno convinta, quella è materia da verificarsi in sede giudiziaria, «non nelle inchieste giornalistiche». Solo che la questione procedurale confonde tutto: «Se un tema di merito diventa politico, ciò non aiuta chi deve giudicare politicamente né chi giudica in tribunale». Metti che arrivi l’avviso di garanzia nel contesto di un braccio di ferro politico: «Un avviso non determina in automatico le dimissioni di un ministro. A maggior ragione con queste modalità». La premier non arriva a dire chiaramente che la campagna politica e la mozione di sfiducia, che non a caso il Pd avrebbe evitato, la costringono a blindare controvoglia la poltrona di Santanchè. Però ci va a un pelo e il senso del messaggio è comunque chiarissimo.

MA QUESTI SONO CASI specifici. Un conflitto a tutto campo con la magistratura «non c’è. Non da parte mia comunque». La premier risponde al presidente dell’Anm Santalucia, che aveva alluso alla separazione delle carriere come rappresaglia della politica per i casi di cui sopra: «Ma che nesso c’è? La separazione serve a garantire la terzietà del giudice. Così si rischia di scivolare». Quello scivolone Meloni vorrebbe evitarlo davvero.

Quando dice di sperare in una riforma «con il contributo dei magistrati», va da sé «per il bene della Nazione», è sincera. Ma la condizione della pace deve essere chiara: «Abbiamo un programma chiaro, un mandato datoci dai cittadini e lo realizzeremo. La separazione delle carriere è per noi un obiettivo di legislatura». Dunque è un passo da non muovere adesso, è lecito chiedersi se la premier voglia passare davvero dalle parole ai fatti accettando un conflitto al cui confronto quello in corso sarebbe un’oasi di pace. Ma di certo vuole mettere subito ben in chiaro i confini delle rispettive competenze.

A SUGGERIRLE di stemperare la tensione, oggi, sarà probabilmente il capo dello Stato. Si incontreranno al Consiglio supremo di difesa, difficile che non ci scappi un colloquio anche sulla giustizia. Ieri Mattarella ha incontrato i vertici della Cassazione. Nemmeno una sillaba al termine dell’incontro però che volesse essere una manifestazione di solidarietà, discreta ma chiara, è certo.

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