Ha scatenato polemiche e ironia nelle settimane scorse lo spot del governo in cui l’allenatore della nazionale maschile di calcio, Roberto Mancini, invita a «uscire dal mondo della droga per vivere le emozioni vere».

Dopo la Venere di Botticelli lanciata ad aprile come virtual influencer dal Ministero del Turismo e il logo fascisteggiante del Ministero dell’Istruzione presentato a maggio, è arrivato a giugno il terzo pasticcio di comunicazione governativa.

La campagna realizzata dal Dipartimento per le politiche antidroga e dal Dipartimento per l’informazione e l’editoria è stata presentata il 26 Giugno in occasione della “Giornata internazionale contro l’abuso e il traffico illecito di droghe” delle Nazioni unite.

La missione di quest’anno per l’Onu era quella di «sensibilizzare sull’importanza di trattare le persone che fanno uso di droghe con rispetto ed empatia», per questo lo slogan era: «Prima le persone. Fermare stigma e discriminazione, rafforzare la prevenzione».

A Palazzo Chigi devono avere letto male i comunicati fin da titolo, visto che hanno sostituito la parola «abuso» con la parola «uso» nel titolo ufficiale della giornata e poi improntato il messaggio dello spot sulla stigmatizzazione di tutti i consumatori di sostanze giudicati colpevoli di vivere emozioni «non vere».

Viene già un po’ difficile immaginare che uno spot pubblicitario immesso nel flusso televisivo o dei social network possa essere credibile quando richiama all’importanza di “vivere emozioni vere”, se poi il messaggio è un apodittico «Tutte le droghe fanno male» il risultato non può che essere raccolto con ironia e dileggio dalla gran parte del pubblico.

Non è facile fare una campagna di prevenzione al consumo e all’abuso di sostanze stupefacenti e non esistono casi studio di particolare successo ma l’empatia verso i consumatori e l’informazione sugli effetti delle varie sostanze, sono da molto tempo la premessa di qualsiasi comunicazione.

Nello spot del Governo l’obiettivo pare invece unicamente quello di accomunare «tutte le droghe» per dichiararne una generale pericolosità. Un messaggio così debole che non può che destare ilarità quando lo si vede raccolto e rilanciato dai tre ragazzi all’interno dello spot: “dai facciamo un video anche noi”. Tutta la forza dello spot è lasciata nelle mani di un testimonial dalla recitazione legittimamente incerta.

Ma quale è il capitale di immaginario sul tema delle droghe o la credibilità di Roberto Mancini verso il target giovanile a cui dovrebbe essere destinata la campagna? La sua è solo l’autorevolezza ontologica data dal ruolo di allenatore della nazionale di calcio.

In pubblicità il testimonial è una scorciatoia dal punto di vista dell’efficacia comunicativa. È un catalizzatore dell’attenzione del pubblico ma per funzionare deve essere al servizio del messaggio altrimenti finisce con «vampirizzare» il contenuto e farci dimenticare quello di cui si sta parlando. Nelle campagne sociali soprattutto il testimonial deve poter essere percepito come seriamente interessato al tema. In questi stessi giorni però Roberto Mancini in tv e sul web ci invita a chiamare un franchising per ristrutturare casa, a usare il Telepass anche con il monopattino, ad andare in vacanza nelle Marche e infine a non drogarci.

La sua è una presenza inflazionata. Quanto gliene importa davvero a questo testimonial dei temi della salute se in uno spot guida una Lancia Flavia senza cintura (è ambientato nel 1990 ma l’obbligo di cintura è di due anni prima) poi mette a rischio la vita di due giocatori della nazionale facendogli spingere un’auto rimasta senza benzina e, in un altro spot, ci invita a bere vino marchigiano?

Nella comunicazione istituzionale molto spesso il testimonial è utilizzato in chiave “difensiva”. Serve a garantire l’organizzazione rispetto alla responsabilità del messaggio. Se c’è un personaggio noto, i dirigenti e funzionari della pubblica amministrazione, così come gli account delle agenzie pubblicitarie, si sentono tutelati rispetto agli esiti della comunicazione e alle critiche che possono arrivare.

Evidentemente non va sempre così. Ma sono queste paure che finiscono per segnalare la rinuncia a una credibilità istituzionale autonoma e alla valorizzazione dell’intelligenza creativa del Paese. Si preferisce subappaltare il messaggio alla fiducia che i cittadini ripongono in figure che hanno costruito la propria notorietà per meriti distanti e diversi da quelli delle istituzioni e la creatività diventa qualcosa di cui poter fare a meno.

Cosa voleva dirci il governo con questo spot? Che tutte le droghe sono uguali, che siano legali o illegali, che siano doping o psicofarmaci, che siano vino, eroina o cannabinoidi? È un messaggio che non serve alla prevenzione e forse concorre ad aumentare il rischio di abusi di sostanze stupefacenti.

Ma quando non si sa cosa dire lo si fa dire una persona famosa. Un po’ come quando un allenatore di calcio schiera i giocatori degli Europei del 2021 per premiarli della vittoria passata, per finire eliminato alle qualificazioni dei Mondiali dalla Macedonia del Nord.