Caroline Elkins, la natura umana rivelata negli esportatori di brutalità
Un saggio Einaudi Una monumentale ricostruzione della storia dell’Impero britannico, e delle nefandezze elargite dietro le sue pretese civilizzatrici: «Un’eredità di violenza»
Un saggio Einaudi Una monumentale ricostruzione della storia dell’Impero britannico, e delle nefandezze elargite dietro le sue pretese civilizzatrici: «Un’eredità di violenza»
Fra tutti gli imperi della storia, quello britannico gode, nella visione tradizionale che ne è stata tramandata, di una specificità importante: pur essendo durato per secoli e avendo raggiunto un’estensione tale da essere fra tutti – con 700 milioni di sudditi distribuiti su un quarto della superficie mondiale – il più vasto, non si è mai dato una cultura di pura conquista e assoggettamento; ha invece sostenuto i valori della partecipazione democratica, dello stato di diritto e del libero mercato, elaborando una concezione mista e contraddittoria in cui il dominio si è mescolato a una sorta di discorso sul «venire incontro» alle richieste di autonomia di popoli in grado di farsene carico e alla conseguente progressiva cessione di sovranità.
Dai gulag di Sua Maestà
A fronte di questa vulgata, è molto stimolante il corposo volume di Caroline Elkins titolato Un’eredità di violenza Una storia dell’impero britannico (traduzione di Luigi Giacone, Einaudi, pp. 1000, € 48,00) che propone una lettura assai critica di questi peraltro già discussi luoghi comuni. L’autrice, una storica americana che insegna a Harvard, ha acquisito la sua notorietà con una ricerca di notevole efficacia sulla repressione britannica del movimento dei Mau Mau nel Kenya degli anni Cinquanta, organizzata con un sistema da lei chiamato «il Gulag britannico».
Basandosi su quel libro, che vinse il Pulitzer nel 2006, la Bbc trasmise un famoso documentario, che denunciava le pratiche di violenza e detenzione di massa (l’intera popolazione dei kikuyu, un milione e mezzo di persone, era stata tenuta in condizioni di totale o parziale reclusione) cui se seguì un processo collettivo da parte delle vittime kenyote, con richiesta di risarcimenti al governo britannico. Proprio all’avvio del processo, nel 2011, venne rinvenuto un deposito sconosciuto di documenti rimossi dal Kenya al momento dell’indipendenza – nel 1963 – e raccolti a Hanslope Park, vicino a Northampton, insieme a materiali provenienti da altri territori dell’Impero, per un totale di 240.000 file secretati. Basandosi su questi materiali e su quelli di altre due dozzine di archivi e fondi di ricerca, Caroline Elkins ha prodotto una monumentale storia dell’impero britannico nell’ultimo secolo e mezzo, fondata sulla scoperta di ciò che chiama l’«illegalità legalizzata».
Contrariamente a Winston Churchill che sosteneva essere stato il Kenya un‘eccezione, Elkins ha appurato come quella repressione non fosse stata la bizzarra e sfortunata anomalia di un potere imperiale basato sul consenso, ma un dato rivelatore, la vetta di tecniche violente, che in modi diversi ma convergenti, vennero usate negli altri trentasei territori imperiali. Esaminando altri casi simili, come il conflitto boero e la guerra d’indipendenza irlandese, ma anche le rivolte in India, in Iraq e in Palestina, oltre alle strategie del dominio britannico a Cipro, in Malesia e in Kenya, Elkins arriva a concludere che l’Impero britannico si è storicamente fondato sulla violenza. Certamente, c’era dietro questa violenza una pervasiva ideologia di estensione alle società arretrate del libero commercio e l’avvio a una educazione religiosa grazie a cui si sarebbero sollevate dal dominio esterno e, un giorno, affrancate.
Erano i frutti di una pretesa redenzione, basata sull’idea che la missione civilizzatrice fosse radicata in una superiorità britannica indiscussa, condivisibile solo al prezzo di ineluttabili sofferenze. L’imperialismo liberale è d’altronde una concezione moralizzatrice, che nasconde e copre, dietro la nozione di emergenza, coercizioni spietate e, in una parola, barbarie. Una storia dell’impero britannico procede dunque alla lunga e meticolosa destrutturazione dell’immagine tradizionale che ci hanno rimandato, fra gli altri, i libri di Rudyard Kipling, fondati sulla ovvia superiorità degli inglesi, e su fondamenti teorici e esperenziali teoricamente tramandabili ma che sono stati, nella pratica, usati in difesa di una prospettiva implicitamente basata sulla supremazia razziale. La Pax britannica sarebbe consistita, in sostanza, in una doppia lingua, usata per coprire con attestazioni di virtù i metodi sadici impiegati per difendere il potere imperiale con ogni mezzo: gli esempi del resto non mancano.
In cerca di effetti morali
Nel suo libro Caroline Elkins ricapitola la vicenda del leggendario Douglas Valder Duff, che si addestrò in Irlanda con la Royal Irish Constabulary, nota per le sue tattiche violente durante la guerra d’indipendenza irlandese, e poi partì per la Palestina, dove applicò metodi simili contro i nazionalisti arabi; così come riassume le gesta del generale Reginald Dyer, che falciò manifestanti inermi ad Amritsar, nel Punjab, il 13 aprile 1919, sostenendo di essere stato mosso dall’intento di suscitare un «effetto morale» nella folla indiana. Centinaia di pagine stabiliscono, inoltre, i nessi fra queste strategie della violenza e le sue ricadute oggi, come Elkins ha sottolineato in una intervista in cui, riferendosi alla esportazione negli Stati Uniti di un certo tipo di dominio imperiale ha detto che non è una questione storica, bensì di attualità.
Se occorre ammettere che le cose stanno effettivamente così, ovvero che la sfida a un eccezionalismo britannico infarcito di paternalismo e di obbligo al progresso è del tutto condivisibile, è anche vero tuttavia che alcuni dei casi affrontati – l’Irlanda, Cipro e ancora di più la Palestina – sono iscritti in contesti più complessi, che afferiscono a aspetti della politica internazionale, dei conflitti etnici e religiosi e della lotta per la supremazia tra imperi, stati, nazioni, poco trattati nel volume. Così come l’impero britannico con le sue efferatezze sono scarsamente confrontati ai suoi avversari.
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