Najib Bukele si è definito «il dittatore più cool del mondo». E probabilmente lo è. Dopo un vero e proprio golpe istituzionale, cambiando i vertici della Corte suprema del Salvador, ha partecipato a elezioni presidenziali anticostituzionali e domenica scorsa le ha vinte a mani basse. Ha ottenuto più dell’85% dei voti, dieci volte di più del secondo arrivato, il candidato dall’ex fronte guerrigliero Fmln. Il suo partito, Nuove idee, ha raccolto 58% dei 60 seggi in ballo. «Abbiamo polverizzato l’opposizione. Siamo la prima democrazia a partito unico», ha commentato.
Il prezzo da pagare è quello indicato dal pastore e difensore diritti umani Noah Bullock: per vincere, Bukele «ha creato un gulag tropicale…Il suo “modello” è un sistema repressivo nel quale lo Stato può fare quello che vuole con chi vuole». Un paese simbolizzato da un megacarcere sorvegliato da militari nel quale si entra con facilità senza tanti impicci di garanzie costituzionali – ed è noto che vi sono alcune migliaia di innocenti carcerati come pandilleros – ma dove poi si sparisce.

Secondo la ong Latinobarómetro, oggi l’America latina soffre di «una recessione democratica». Non vi è dubbio che in questo quadro quello che già viene definito il “modello Bukele” sia il più seduttore e pericoloso che esista in vari paesi del subcontinente latinoamericano.

In Cile, Bukele è al secondo posto tra i leader mondiali più apprezzati. In Argentina il presidente Milei non gli risparmia elogi. In Perù il vicepresidente del parlamento, Hernando Guerra, ha affermato che « il paese non ha bigogno di uno, ma di due Bukele». In Colombia la destra radicale minaccia di sloggiare con la forza il presidente progressista Gustavo Petro. Il cardine di questa opposizione radicale è nei governatori, sindaci e parlamentari delle più importanti regioni. Andrés Beltrán sindaco della capitale del dipartimento di Santander ha proposto la costruzione di un megacarcere stile Bukele. Dilian Francisco Toro, neo-governatrice del Valle del Cauca, propone governi di polizia in vari municipi e di riattivare i Battallones contrainsurgentes de Alta Montaña, responsabili di migliaia di “falsi positivi” (guerriglieri uccisi che non erani guerriglieri) ai tempi del presidente Uribe.

Ma è soprattutto in Ecuador che il presidente Daniel Noboa tenta di seguire le orme del suo omologo salvadoregno. Per combattere la delinquenza organizzata, fortemente pervasa dai cartelli di narcos colombiani e messicani, il 9 gennaio ha emesso il Decreto di conflitto armato interno. Come in Salvador, la sicurezza cittadina viene equiparata alla sicurezza dello Stato, la lotta alla criminalità diventa «una guerra interna non convenzionale». A fine gennaio Noboa ha annunciato con soddisfazione che il tasso di omicidi è sceso da 27,8 al giorno a 10,6. E che «la lotta contro la criminalità è largamente sostenuta dalla popolazione».

«La lotta alla criminalità organizzata necessita di una strategia integrale e sociale ben più ampia della militarizzazione», gli contesta l’economista d’opposizione Pablo Davalos. Una delle cause è la dollarizzazione del paese e la legge voluta dal precedente presidente Guillermo Lasso che «permette il lavaggio dei capitali dei narcos». Grazie ai soldi ottenuti con gli stupefacenti e con il lavaggio del denaro sporco – e a differenza della relativa povertà delle pandillas callejeras di El Salvador – i gruppi criminali dell’Ecuador sono molto meglio armati e socialmente pericolosi. Per questo, afferma, il modello Bukele non è esportabile.

Ma, sostengono altri analisti, la solidità del “modello Bukele” è basata sulla sensazione di cittadini impauriti e delusi dalle istituzioni che non esistano altre alternative possibili che possano portare a risultati rapidi contro la criminalità. Come afferma Latinobarómetro i diritti umani «sono relegati al margine».