Teatro di guerre devastanti, il Novecento è stato in Europa anche, e non a caso, un secolo di profondi sconvolgimenti letterari, del quale non tutto è stato catalogato: Adelphi ne ha offerto di recente l’ennesima prova ripescando dai meandri dell’editoria un capolavoro tedesco finora mai tradotto in italiano, Io?, scritto da Peter Flamm negli anni Venti. Curiosamente, e forse non senza intenzione, l’editore milanese ha editato in rapida successione tre romanzi – oltre a quello di Flamm, anche La porta di Georges Simenon, e Le lupe del diabolico duo Boileau-Narcejac – che, seppur lontani tra loro per lingua, stile e contesto, hanno al centro un unico tema: la cancellazione dell’identità dell’individuo come conseguenza più immediata e universale della guerra. I conflitti abbattono materialmente e idealmente le costruzioni sociali che irregimentano le vite umane, aprendo squarci irreparabili nelle fragili maglie dell’Io: ne distruggono la storia, ne alienano gli affetti, e, più prosaicamente, ne bruciano i documenti, ciò che solletica sovente le trovate romanzesche più maligne.

Spossessati di tutto
Oltre al reduce di Flamm (di cui ha scritto Roberta Ascarelli su «Alias» del 7 luglio), che torna dalla guerra ed è convinto di avere rubato l’identità a un morto, e di vivere nel corpo di un altro, anche i protagonisti di Boileau-Narcejac e di Simenon si trovano a esperire il dramma di chi sopravvive a un conflitto e ne esce spossessato di tutto: nel cupissimo La porta protagonista è un «grande invalido» della Seconda guerra mondiale, che consuma, nell’appartamento di Parigi dove vive trincerato da anni a causa della mai accettata condizione di menomato, un dramma della gelosia destinato, come spesso avviene in Simenon, a un epilogo tombale; nell’ancora più inquietante Le lupe (bella traduzione di Lorenza Di Lella e Francesca Scala, pp. 179, € 18,00), la trovata iniziale si risolve nel più classico e romanesque degli «scambi di identità».

Gervais, questo il nome del reduce, è qui narratore in prima persona, al passato (slitterà poi, in una seconda parte più breve e angosciante, al presente). Con un racconto frame-by-frame che srotola davanti agli occhi di chi legge un immaginario ma nitidissimo film noir, sotto una «di quelle pioggerelle ostinate che sono come l’immagine del Male», si esaurisce la sequenza in cui Gervais raccoglie i documenti e l’identità di Bernard, il suo defunto compagno di fuga (da un imprecisato «Stalag»), e giunge nottetempo alla stazione Perrache, a Lione, dove lo attende la «sua» (sua, di Bernard) promessa sposa per corrispondenza, come usava durante la guerra.

È una donna che non lo ha mai visto in faccia, almeno così egli suppone, e che gli ha inviato cibo e oggetti di prima necessità durante la prigionia, nella speranza un giorno di conoscerlo di persona. Gervais si gioca il tutto per tutto e si trasforma in Bernard, entrando in casa della futura moglie, Hélène, e della sorella minore, Agnès, una giovanissima «strega», forse una veggente, forse una manipolatrice, di cui non tarderà a divenire amante.

L’ambientazione – la casa dove tutti si spiano e sospettano dell’altro – diviene via via più asfissiante, e i colpi di scena si susseguono con incalzante generosità, tenendo il romanzo tutto dentro un’azione che, dopo la premessa «cinematografica», si rinchiude in una più posata pièce da camera: memorabile l’ingresso in scena della sorella del povero Bernard che, anziché smascherare l’impostore, ne asseconda incomprensibilmente le menzogne, portando il gioco delle maschere alla soglia della psicosi per poi smorzarlo in un articolato gioco di ruolo a fini di lucro.

Le foto del commilitone spuntano da tutte le parti a accusare Gervais, che alla fine sembra, come ogni personaggio del romanzo, vittima di una di maledizione rassomigliante a quella del Tesoro della Sierra Madre di B. Traven, dove un favoleggiato malloppo (maledetto) ammazza (qui avvelena, più che altro) chi prova a impossessarsene.

L’ecatombe è inevitabile: quando la narrazione passa al presente, si è certi di essere incamminati verso un ineluttabile, tremendo finale, nel quale i due scrittori francesi si producono in uno dei loro numeri più sadici, eseguito con la consueta, straniante eleganza. Un effetto che doveva prodursi anche in ragione dello stravagante metodo di lavoro adottato, come raccontavano in una intervista rilasciata alla televisione francese: «Abbiamo sempre lavorato per corrispondenza e continueremo a farlo (…) Ciascuno ha diritto a diversi giorni di riflessione per rimuginare sulle obiezioni dell’altro. (…) Il nostro metodo è immutabile, Pierre Boileau inventa la trama e Thomas Narcejac scrive(…) È Pierre infine che batte a macchina i manoscritti inviati da Thomas, migliorandoli via via».

Il periodo d’oro
Dal loro dialogo per corrispondenza – lo stesso che dà origine all’intreccio di Le lupe – questi due demiurghi capricciosi seppero trarre decine e decine di buoni romanzi. Tra questi, alcuni dei più celebri furono scritti in pochi anni (Adelphi ha già pubblicato, tra gli altri, I diabolici, del 1952, La donna che visse due volte, del 1954, da cui Alfred Hitchcock trasse uno dei suoi capolavori, e Le incantatrici, del 1957).

In Le lupe, edito in Francia nel 1955, la scrittura rapida e l’angoscia montante nella voce del narratore lavorano a costruire l’illusione di una prossimità ai fatti narrati che produce, nel corso delle pagine, un coinvolgente pathos allucinatorio, anche se il racconto scorre sui binari del genere con maggiore diligenza rispetto ad altri lavori di Boileau e Narcejac che deragliano verso una più sfuggente, e in fin dei conti meno rassicurante, ossessività.