Peter Flamm, tutti lo riconobbero, nessuno lo conosceva
Novecento tedesco Verdun, 1918: un sopravvissuto si impossessa della identità di un soldato morto. Tra bugie, sensi di colpa, follia, il racconto resiste alla violenza del dialogo interiore: «Io?» di Peter Flamm
Il capolavoro che Peter Flamm, psicoanalista e letterato berlinese, pubblicò alla metà degli anni Venti – Io? (ammirevole traduzione di Margherita Belardetti, con una ricca nota di Manfred Posani Löwenstein, Adelphi, pp. 150, € 18,00) inizia allucinato e sorprendente con una negazione: «Non io, signori giudici, un morto parla per bocca mia». Chi racconta è un sopravvissuto, Wilhelm Bertuch, che, accusato di un duplice omicidio, ricostruisce in tribunale con un lungo monologo la sua storia friabile e oscura: «Non sono io qui, non è mio questo braccio che si alza, non sono miei questi capelli ora bianchi, non è mio il crimine, non è mio il crimine».
Tutto aveva avuto inizio nel 1918. Da poche ore era finita la Prima guerra mondiale e, mentre cercava di lasciarsi alle spalle i cumuli di morti e i cunicoli delle trincee, Bertuch era inciampato nel corpo esanime di un commilitone. Senza pensarci, con un rapido gesto della mano aveva afferrato dalla tasca il passaporto, impossessandosi, insieme al documento, anche della sua identità. E così quel povero fornaio di Francoforte si era trasformato nel dottor Hans Stern, colto e affermato medico berlinese.
Invece di tornare dalla madre e dalla sorella, sale come un sonnambulo – almeno così dice – sul treno che lo porta a Berlino, la città in cui Hans aveva vissuto con la moglie Grete, il figlio e un cane. Riconosciuto, accolto, vezzeggiato da tutti per una illusione collettiva che le cronache a volte riportano – tranne che dal cane che, dopo averlo morso, stabilirà con lui una tregua precaria – si acquartiera nella casa, nel letto del morto, in una professione che non conosce e che pure vorrà praticare, tra amici che non ha mai incontrato. Lo guida una creaturalità alla Kaspar Hauser che tutto deve ancora imparare e quel bisogno sempre deluso di felicità che attrae in modo irresistibile la letteratura weimariana nell’ultima stagione dell’espressionismo.
La familiarità con la morte, la mancanza di remore morali e il desiderio di normalità fanno di Wilhelm Bertuch il compagno di strada di Andreas Kragler, l’«eroe bastonato» del dramma giovanile di Bert Brecht, Tamburi nella notte, come anche del protagonista di Hinkemann di Ernst Toller, un altro reduce che, mentre sprofonda nell’orrore, spera ancora di essere salvato dall’amore di una donna e da un impossibile riscatto sociale. Ma Flamm conosce troppo bene le nevrosi di guerra per non tratteggiare con la storia di Wilhelm anche un caso clinico in cui una dissociazione post-traumatica viene elaborata o, almeno, riconosciuta in una ansimante ricostruzione.
Wilhelm è ormai felice, ma il passato lo raggiunge nella sua placida vita. Per fugare alcuni dubbi su uno strano caso di omicidio il tribunale chiede al dottor Stern una perizia; non è chiaro, infatti, se a provocare la morte di una vittima sia stato il morso di un cane o la brutale aggressione di una giovane sedotta e poi ingannata, Emma Bertuch, sua sorella. Contro ogni logica, la scagiona, ma la storia di miseria e degradazione della donna continua a perseguitarlo. Ancora una volta in treno, sempre più disorientato, giunge a Francoforte in cerca dei legami di un tempo, ma la madre muore senza riconoscerlo. Faticosamente, la rielaborazione conquista spazio al processo di rimozione e Bertuch decide di tornare nel luogo in cui tutto ha avuto inizio: giunge a Verdun, vede le alture di Douaumont e Fleury e qui capisce di essere ancora intrappolato nella esperienza della guerra e nella violenza della morte: «ho paura» – confessa – «rivedo le bare, busso a ognuna, ed ecco che dappertutto ne fuoriescono sottili steli bianchi (…) le bare si sollevano, si spingono senza far rumore, una accanto all’altra, tutto inizia a muoversi intorno a me, la terra si squarcia come per mille bianche ferite, le bare si raggruppano, il corteo prende forma, si estende da orizzonte a orizzonte».
Unica friabile sponda in questo percorso che si scioglie tra menzogna, sensi di colpa e follia, è il linguaggio che resiste – per quanto confuso, sperimentale e teso – alla violenza del dialogo interiore, alle fantasmagorie dell’espressionismo e alla minaccia della follia. Bertuch racconta la sua esperienza affastellando emozioni, divagazioni e fatti in una ipotassi scandita dalla punteggiatura sconnessa, torturata tra incisi e digressioni che rallentano il ritmo di ogni frase confondendone il senso; eppure con l’abilità di un funambolo e una buona dose di ossessività riesce ogni volta a ritrovare la strada accidentata del racconto.
Peter Flamm, l’autore di questo testo spiazzante e magnifico, era scomparso dalle affollate memorie letterarie della Repubblica di Weimar. Si poteva al massimo trovare qualche distratto riferimento alla sua precaria vena di scrittore, a qualche amico di rango o a qualche ‘paziente’ del lungo soggiorno americano: William Faulkner era fra questi. Una eclisse che si è interrotta pochi mesi fa, quando Fischer ha ripubblicato dal vecchio e glorioso catalogo Ich?, con la ambiziosa postfazione di Senthuran Varatharajahe e il testo dello struggente discorso tenuto da Flamm a Francoforte nel 1959 ad una riunione del Pen club, in cui ricorda il fratello Hans (Hans come Bertuch), morto a Verdun perché «non voleva aver letto i classici tedeschi per niente».
Flamm si chiamava in realtà Erich Mosse. Era nato a Berlino nel 1891 in una ricca e potente famiglia della aristocrazia ebraica e aveva firmato per pudore con quello pseudonimo un primo, debole dramma e numerosi racconti pubblicati nelle riviste dello zio Rudolf mentre studiava medicina e, quindi, psichiatria.
Nel 1926, il suo romanzo psicologico d’esordio Ich? fece scalpore. Dopo, il successo disertò a lungo, e i tre successivi romanzi caparbiamente espressionisti furono accolti con benevola sufficienza: «Erich Mosse, Peter Flamm – scrive di lui Stefan Zweig nel novembre del 1931 – molto gentile e simpatico. Peccato che non abbia ancora capito cosa fare di sé. Moltissimo talento, eppure non abbastanza». Con l’avvento del nazismo rinunciò alla letteratura; emigrò a Parigi, quindi a New York, dove divenne Eric P. Mosse, rispettato psicoanalista, autore nel 1957 di un volume scientifico e consolatorio The Conquest of Loneliness; ma non riuscì mai a curare la nostalgia per la sua amata Germania e per la lingua di Goethe che gli era stata violentemente sottratta: «Sono nato ebreo – dice verso la fine di una vita ‘americana’ –, ma mi sentivo più tedesco di altri tedeschi. Parlavo tedesco, scrivevo tedesco, mi sentivo tedesco».
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