È consuetudine, nella letteratura anglosassone (in particolare per la calligrafia americana di una dissertazione scientifica), far seguire, ai capitoli di un’indagine accademica, paragrafi estremi ed autonomi, combacianti di fatto con le conclusioni del discorso: un modo di tirare le fila per una bibliografia spesso sedotta dalle iperboli concettuali e da una casuistica metodologica, capziosa e aggiornata.

Si tratta di un costume che il metodo storicista ha per lo più avvertito come limitante. L’ha contraddetto, in particolare, la fiducia riposta nelle vicende narrate, fra fonti e documenti, ritenute specchio chiaro per le ambizioni di ogni analisi: siamo insomma di fronte a una diversa prospettiva che vede, nell’abbondanza dei dati e delle notizie, la riprova preferenziale di ogni deduzione speculativa.

La scultura alla Biennale di Venezia 1895-1914 Una presenza in ombra (ZeL Edizioni, pp. 508, euro 40,00): al termine del volume di Cristina Beltrami, dedicato alla fortuna della scultura nelle prime undici Biennali veneziane, s’insinua tuttavia nel lettore il bisogno di un résumé, sebbene la studiosa presenti, nel suo articolato ragionare, i percorsi di una vicenda in fondo minima, quella relativa ai modi e alle mode vagliati per presentare opere tridimensionali negli spazi dei Giardini sin dalla nascita della rassegna. Quest’urgenza non è certo ingenerata dalla scarsa informazione o da una qualche mancanza di solida compattezza nella struttura del libro: ché anzi, montato con generosità, il suo dettato compie uno sforzo evidente nell’organizzare materiali difformi e disparati, occupandosi anche – e con grande cura – di render sincrona la parte scritta col ricchissimo apparato iconografico.

L’enorme messe di informazioni raccolta dall’indagine è quindi riassunta coscienziosamente e presenta i frutti di anni di studio. Le vicende della kermesse veneziana sono poste in sequenza con scrupolo, in lucida successione cronologica; allo stesso tempo ciascun capitolo – coincidente con un’edizione dell’appuntamento lagunare – rispetta uno schema comune, così da permettere l’agevole tessitura dei rimandi e una diretta costruzione dei confronti fra esperienze eterogenee e susseguenti. Dall’analisi dei pezzi presentati si passa ai focus delle monografiche, alle rappresentanze regionali o straniere, per poi inquadrare i commenti a mezzo stampa di voci autorevoli fra cui Ugo Ojetti, Vittorio Pica, Diego Angeli o Margherita Sarfatti; in ultimo si affrontano i nodi di ogni selezione, valutandone novità e conferme anche sul metro di un panorama allargato, da Castello all’Europa (forse, qualche parola in più si sarebbe potuta spendere sui premi, magari in un computo «al negativo»).

Si deve allora concludere quanto sia la materia stessa a disorientare, lasciando perplessi di fronte a una polifonia di proposte e riuscite, a una qual certa contraddittorietà nelle opzioni curatoriali e nelle presenze in mostra: per questo si vorrebbe esser guidati verso una sintesi che si rivela, al contrario, impossibile, sostituita da una rete complessa di percorsi tortuosi, non sempre congruenti nei presupposti e negli esiti.

Come ben suggerisce il titolo scelto dalla Beltrami, quella della statuaria è d’altronde in Biennale una presenza piuttosto problematica sull’arco temporale imposto allo studio (e che trova un ovvio termine ante quem nell’ultima edizione pre-bellica, quella del 1914): ne implicano la difficoltà, rispetto alla «sorella pittura», innanzitutto ben ovvi fattori economici, per i costi di allestimento oltre che d’esecuzione, ma anche un più ampio scenario – nazionale e internazionale – messo alla prova, sin dalla fine del XIX secolo, dal trionfo incontrastato di Rodin, diviso insomma fra proposte salonnier e audaci soluzioni avanguardiste, indistintamente gemmate – secondo quanto dimostrato da Rosalind Krauss, in un volume celebre – dall’inedito exemplum del maestro francese.

Per questo uno dei fili che, coerenti, s’intrecciano di sezione in sezione è proprio quello che riguarda il rapporto dello scultore coi viali dei Giardini, dai cinque gessi presentati nel 1897, sino alla prima saletta personale nel 1901 (dopo i fasti dell’Exposition Universelle e del Padiglione dell’Alma), per arrivare all’invio ormai corsivo del ’12, quando s’erano già affacciati a Venezia i suoi allievi più promettenti, in primis Émile-Antoine Bourdelle.

In questa rassegna sorprende con nuova forza la consonanza fra le Parche di Libero Andreotti, spedite alla Biennale del 1909, e lo strepito, di poco precedente, sorto attorno ai Borghesi di Calais, in città a inizio secolo e subito comprati per Ca’ Pesaro; ma pure diverte – nel campo del già noto – quanto la proposta in controtendenza di un Pietro Canonica scegliesse Venezia per sfide più dirette, ad esempio col caso fortunato de L’abisso; o come la via alternativa segnata da Medardo Rosso – nonostante i pronti elogi di Ardengo Soffici – attraccasse all’imbarcadero lagunare solo nel 1914 (lasciando scrivere a Ojetti che quelle «impressioni» plastiche, concrete ed evanescenti, parevano ormai «armi» raccolte «sui campi dopo le battaglia»).

Stupisce poi sapere che uno dei primi ‘dispositivi spettatoriali’ organizzati per la kermesse si debba proprio a Rodin: questi, infatti, nel presentare la sua Mano di Dio all’edizione del 1903, avrebbe preteso l’ausilio d’una coppia di sgabelli, nella tribuna dedicata alla scultura, per offrire ai visitatori due diversi punti di vista sul gesso, l’uno più penetrante dell’altro rispetto al portato tematico di quell’invenzione.

Un simile aneddoto si ricollega, in volume, a une delle linee di maggior interesse per la ricerca, e cioè l’unicità della Biennale – rispetto ad altre prestigiose e coeve mostre d’arte – in fatto di compresenza di creazioni plastiche e di opere di pittura, dal salone centrale agli altri ambienti del palazzo Pro Arte, progettato da Enrico Trevisanato; ma anche di un risalto vieppiù importante concesso alla statuaria da parte della giuria d’accettazione. Si tratta di una strategia non perseguita con rigidità programmatica nel corso dei primi undici appuntamenti e che, tuttavia, va considerata una tendenza assai chiara, rivolta a esiti scenografici di grande effetto: pensiamo alla «sala Sartorio» del 1907 o alla decisione che, nel 1914, avrebbe portato – in una prospettiva di spazi espansi – a invadere anche il parco attorno ai padiglioni, via via più numerosi, con gruppi monumentali di Bistolfi o Dazzi, di Maraini o Wouters. È questo un contributo non secondario alla fortuna della scultura del Novecento, al di là di antologiche più o meno discutibili e di predilezioni legate al momento: un’idea che collocava le statue al cuore della Biennale, pur censendone il cammino periglioso verso i linguaggi della modernità.