L’Etiopia ha inaugurato il suo primo padiglione alla 60/a Biennale di Venezia con la mostra Prejudice and Belonging dell’artista Tesfaye Urgessa, allestita a Palazzo Bolani (fino al 30 settembre). «Avere un padiglione dedicato all’Etiopia in questa importante rassegna è sempre stato un sogno per la maggior parte degli artisti del paese, e per me sin da quando ero uno studente – confessa Urgessa –. Un anno e mezzo fa, con la galleria Saatchi Yates di Londra, ho espresso questo desiderio, ritenevo fosse il momento giusto per avviare un dialogo con il governo. Abbiamo avuto molti incontri in Etiopia cercando di convincere le amministrazioni dell’importanza della Biennale di Venezia per la comunità, per mostrare ciò che sta accadendo nel nostro Paese. Ci è voluto quasi un anno per convincere tutti. Essendo arrivato per primo, ho scelto io stesso il curatore, una procedura insolita: Lemon Sisahi è uno scrittore e poeta, bravo con le parole, mentre io lavoro con l’immagine».

Ci può spiegare il progetto «Prejudice and Belonging»?
Mi interessava collegare «pregiudizio e appartenenza» al tema scelto dal curatore di questa edizione Adriano Pedrosa, Stranieri ovunque, ma non mi interessava farlo in modo illustrativo. Ho cominciato a pormi delle domande: Quanto tempo è necessario per «appartenere»? Anni? Generazioni? La situazione che si vive è la medesima per un europeo in Africa o un africano in Europa? Mentre mi arrovellavo su questi interrogativi, affioravano varie immagini. Volevo provare a creare un rituale, che potesse anche essere connesso a un ambito religioso, ma che non producesse una lettura a senso unico. È importante per me che le persone avvertano che qualcosa di molto intimo, privato, stia accadendo all’interno della tela, pur non facendone parte.

Tesfaye Urgessa (Courtesy Tesfaye Urgessa e Saatchi Yates, foto di Kameron Cooper)

Lei torna spesso sull’elemento dello sguardo, dell’essere osservati ma anche del diventare colui che osserva: forse questo interesse viene dall’esperienza di essere uno straniero in Europa?
La prima volta che ho preso coscienza dello sguardo è stato quando sono arrivato in Germania: la società ti rende subito consapevole del fatto che sei diverso. È molto facile che la polizia sorvegli te piuttosto che altre persone. Arrivano e ti chiedono i documenti davanti a tutti. Non importa quanta gente ci sia intorno. Io non ero mai stato sotto quel tipo di riflettori negativi in vita mia. Sembra qualcosa di semplice, ma è molto complicato e imbarazzante per un essere umano. Le persone passano e ti guardano, pensano sempre che il 50% della tua identità sia quella di un criminale, perché sei nero. Da lì viene lo sguardo. Le persone provano disagio ad essere esaminate e osservate. Io inverto le posizioni: chi guarda non si trova in una posizione di conforto di fronte alle mie figure. Ma c’è anche un’altra componente di quello sguardo: è la relazione che io stesso stabilisco con le figure. Nel momento in cui dipingo i loro occhi mi guardano, io le guardo. Da lì comincia la nostra relazione e sento che devo prendermene cura.

Ha definito la sua arte un rituale: spesso i rituali sono costruiti su ripetizioni, cosa che si rileva anche nei suoi quadri…
Per me è cruciale che questa ripetizione si mantenga perché io cambio come persona lentamente, quindi anche la mia pittura muta. Non mi interessa creare un nuovo stile o essere originale. L’originalità è un sottoprodotto che invita a riconoscere chi sei, cosa stai pensando, cosa stai attraversando e cosa può venirne fuori. Se un pensiero continua a girarmi in testa, alla fine precipita nella stessa maniera anche all’interno del dipinto, perché è una estensione del mio essere e non può essere cercato in una dozzina di modi diversi di proporsi.

Ha vissuto in Germania per 13 anni. Pensa che il ritorno in Etiopia abbia influenzato i suoi lavori?
Questi ultimi lavori sono arrivati dopo quelli che ho fatto prima, quindi è difficile fare un confronto. Ma in un certo senso, tornato in Etiopia, ho sentito il bisogno di realizzare opere monumentali. E credo che questo sia dovuto al fatto che tutta la mia famiglia viva lì. Passiamo del tempo insieme e, mentre dipingo, questo aspetto è presente nella mia mente. Il tempo in studio è diventato qualcosa da esplorare, qualcosa di grande. Quindi direi che mi sta influenzando molto positivamente, e spero di continuare su questa strada.

Il rientro nel suo paese in questo momento, e dopo anni in Europa, è stata una decisione coraggiosa e significativa…
Sono consapevole di ciò che sta accadendo in termini politici, ma un’altra ragione per cui siamo tornati è che ho figli tra i 17 e 5 anni e desidero che conoscano il mio background, la mia famiglia, e che si facciano degli amici nel Paese. Per fortuna Addis è molto sicura e abbiamo deciso di provarci. Naturalmente, per molte persone è stato difficile accettarlo. Dal punto di vista del mio lavoro, l’esperienza acquisita fuori rimane una grande risorsa. Posso comunicare con i giovani artisti molto meglio che in Germania, dove ce ne sono tantissimi e non hanno bisogno di me come «banco di prova». Ho uno scopo più importante restando nel paese.

Crede che la partecipazione del paese alla Biennale possa influenzare la situazione in termini di arte e circolazione in Etiopia?
È un passo fondamentale, perché un aspetto dell’essere artista, o del cercare di avere una comunità di artisti attiva, è legato alla necessità di tessere una rete di comunicazione internazionale. In Etiopia abbiamo artisti di incredibile talento ma non abbiamo mai avuto questo tipo di connessione con il resto del mondo; quindi, il mercato è povero ed è molto difficile per gli artisti sopravvivere, anche per i migliori. Oggi la situazione sta migliorando, grazie a Internet. Gli artisti scrivono ai galleristi, ai curatori, e ottengono mostre qua e là, ma la partecipazione alla Biennale di Venezia convoglia più attenzione. Un’altra questione è che molte persone conoscono la storia del Paese, la pittura tradizionale, le chiese, ma ritengo importante che sappia cosa sta succedendo adesso. Dobbiamo lavorare su questo aspetto in termini di mostre, partecipazione a fiere d’arte e tutti gli sforzi che ne conseguono. Molti giovani mi scrivono perché vogliono che racconti loro questa esperienza. Sto raccogliendo i materiali – le registrazioni video della conversazioni, delle interviste e delle persone che ho incontrato – per farli vedere nelle scuole. Il mio impegno è trasmettere loro la possibilità di avere un prossimo padiglione, un altro e un altro ancora. Esiste un intenso dibattito locale e mi auguro che costruiremo un comitato, probabilmente ottenendo anche fondi privati. Forse le classi sociali benestanti nel paese vorranno dare il loro contributo. Ora possiamo iniziare un vero dialogo.