Cultura

Un ritratto profumato di Corea

Un ritratto profumato di CoreaInstallazione nel padiglione coreano ai Giardini, «Odorama Cities»

Mondi olfattivi Koo Jeong A, artista di Seul, spiega il suo progetto «Odorama Cities» presentato alla 60/a Biennale di Venezia. «Desideravo costruire un’immagine immateriale della penisola, risvegliando qualcosa che potesse creare una sorta di luogo transnazionale, per andare verso un futuro comune che superasse le attuali divisioni»

Pubblicato 6 mesi faEdizione del 14 maggio 2024

«In giorni primaverili quando i rododendri coreani sono in fiore, mi ritrovo ancor di più a sentire la mancanza della mia città natale. Qui nella Corea del Sud, annuso i fiori, cercando di ritrovare il profumo di quelli della Corea del Nord. E, infatti, è così: hanno lo stesso profumo».
Un labirinto di memorie olfattive: profumi, essenze che si vaporizzano, visitatori con il naso puntato al soffitto mentre cercano di cogliere qualcosa che permetta loro di azionare a ritroso la macchina del tempo. È questa l’esperienza immersiva che si vive dentro al padiglione della Corea alla 60/a Biennale di Venezia, a cura di Seolhui Lee & Jacob Fabricius, con quel paesaggio fumoso e aromatico che esce dalle narici di un grande «alieno» che spicca un salto. Forse levita, approdando in altre galassie.
L’artista Koo Jeong A (Seul, 1967), durante l’estate scorsa ha collezionato per tre mesi flussi di scent memories di circa seicento persone per comporre in Laguna un puzzle di fragranze adatto alle sue Odorama cities. Sono ritratti odorosi di luoghi, architetture, spazi urbani che tentano un’operazione di «cucitura emotiva» fra le due Coree: a terra, una struttura lignea flottante simboleggia un infinito ruotare intorno al mondo, un eterno ritorno.

Come è nato il progetto partecipativo «Odorama Cities»?
Quando sono stata invitata a proporre un mio lavoro per la Corea, pensavo all’importanza di un futuro comune, che superasse l’attuale nostro periodo di separazione. Anche i Giardini di Venezia sono divisi in nazioni con i loro padiglioni. Il mio desiderio era invece di costruire un ritratto della penisola coreana risvegliando qualcosa che potesse creare una sorta di luogo transnazionale. Questa è stata la mia prima motivazione. Abbiamo ricevuto seicento candidature attraverso un processo di open call. Le «storie profumate», inviate da persone sconosciute provenienti da ogni parte del mondo, sono state una vera sorpresa. Erano tutte molto profonde e intricate: riguardavano le città, la natura, ricordi molto antichi ma anche alcuni radicati in tempi più recenti della Corea. Quelle memorie permangono nelle molecole biologiche e sono influenzate pure da regole architettoniche.

C’è anche un riferimento alle esperienze sinestetiche delle avanguardie occidentali?
Non proprio. La complessa interazione di preferenze individuali e ascendenze culturali ci conducono in un viaggio attraverso diverse forme. Come Ousss, termine in continua espansione con cui mi confronto dagli anni 90, che può essere sia una radice, sia un affisso, sia un suffisso. È un suggestivo movimento enigmatico e mutevole, un segnale della materia e dell’energia che si agitano al suo interno.

Koo Jeong A

C’è un odore particolare che la lega alla sua città e che riporta alla mente momenti vissuti nell’infanzia?
Sì, esiste ed è la fragranza speciale di una mela. Tra tremilacinquecento varietà di questo frutto in tutto il mondo, non mi è mai più capitato di ritrovarla uguale.

Cosa ci può dire della sua cooperazione con i profumieri?
Il mio collaboratore Noses ha lavorato con le descrizioni che abbiamo selezionato dalle storie di profumi, creando diciassette essenze sperimentali: sedici appartenevano a singole città e una invece era riferita all’intera penisola coreana, rappresentando così un’unità virtuale. L’ingegneria delle molecole di profumo – le loro diverse velocità, lente, medie, supersoniche e i loro differenti pesi – fornisce dei rapporti precisi e rispecchia le molteplici dimensioni raccontate: il pensiero collettivo e l’immaginazione remota. Alla fine, si evince un pensiero simmetrico basato sulla matematica, sulla fisica, medicina e cosmologia. Qualcosa che è molto astratto e che, allo stesso tempo, si trasforma in una narrazione più ampia tanto da allargare le conoscenze e produrre significati.

Ritiene che, con l’intangibilità dell’olfatto, la supremazia della vista – sempre così preminente nell’arte – possa essere messa da parte consentendo di aprirsi a nuove esperienze?
Esattamente. Questo è stato un obiettivo interno al mio lavoro fin dalla prima mostra con il profumo. Nel 1996, l’elemento scelto era la naftalina. Il ritratto della penisola coreana, in questo padiglione, dimostra che è assolutamente possibile comporre un paesaggio di profumi a partire dalla sapienza immateriale delle persone.

Alcuni filosofi, fin dall’antichità, consideravano l’olfatto un senso di contatto e la vista di distanza. Secondo lei, è più istintivo e può riconnetterci con un perduto stato selvatico?
Facendo evaporare i progetti è come se, in quella bottiglia, la velocità e il peso delle molecole collaborassero con le architetture concettuali delle città, dei luoghi o delle epoche. La selvatichezza alberga nel dispositivo che il profumo potrebbe «disegnare» attraverso il motore della memoria. È sinonimo di non separazione e di un lavoro da fare insieme, per futuro comune. Gli odori possono evocare ricordi vividi e scatenare emozioni intense perché il sistema olfattivo è strettamente collegato al sistema limbico del cervello. Questa connessione spesso porta al fenomeno noto come «memoria olfattiva» in cui certi profumi ci riconsegnano ricordi o sensazioni specifiche a essi associate. Senza memoria non è plausibile creare nuova conoscenza.

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