Una donna e un uomo in un carcere, sono moglie e marito, lei è una prigioniera politica, lui va al colloquio una volta alla settimana ma le loro parole si impigliano nel controllo. La donna chiede all’uomo di allenare una giovane atleta cieca per la corsa di Parigi, sarà l’inizio di qualcos’altro, di una diversa corsa per attraversare la Manica in cerca di una nuova libertà.

Blind Runner è il nuovo lavoro di Amir Reza Koohestani, artista iraniano che in Italia avevamo conosciuto all’inizio degli anni Duemila con Dance on Glasses, uno dei suoi primi spettacoli col Mehr Theatre Group. Oggi Koohestani vive in Germania, e se Blind Runner – che come racconta è stato pensato prima delle proteste per l’omicidio di Mahsa Amini – nella sua grana ci porta alla realtà iraniana, dall’altra parte allarga l’orizzonte a altre battaglie di libertà. A cominciare da quella dei migranti che nell’illuminata Europa perdono la vita per cercare un futuro negato nei loro paesi da guerre e sfruttamento, svelando le contraddizioni feroci nelle democrazie del nostro tempo.

«Volevo evitare di chiudere questo lavoro in una situazione specifica, mi interessava confrontarmi con un’idea più universale, raccontando come un essere umano trova il proprio modo per forzare i limiti e raggiungere con la sua voce le persone nel mondo. Il movimento in Iran è una delle motivazioni ma Blind Runner non è una pièce documentaria» dice Koohestani.

Ci parliamo prima del suo arrivo alla Biennale Teatro di Venezia.

Uno dei suoi primi spettacoli, «Dance on Glasses» (2001), metteva in scena il sentimento doloroso del controllo nel movimento impercettibile, che diveniva quasi una metafora, fra minuscoli frammenti di libertà e una totale costrizione. Oggi come artista che vive in un altro paese, cosa è cambiato per lei in Iran?

Tutto è peggiorato e non solo in Iran ma anche nel resto del mondo, in Europa lo abbiamo appena visto con le elezioni europee. Ognuno deve imparare a sopravvivere nell’oppressione e a non sottovalutarne i rischi. Negli ultimi mesi abbiamo capito che anche nei paesi democratici europei nessuno può sentirsi al sicuro con i partiti fascisti e di destra che diventano sempre più popolari. Gli artisti, gli intellettuali che fuggono da un regime con la speranza di vivere in libertà, trovano invece un’Europa sempre meno accogliente. Dance on Glasses era un bel lavoro, rispetto al nostro presente pecca però di ottimismo. Allora credevo che l’amore poteva bastare a riempire il vuoto della miseria e della catastrofe, adessola realtà quotidiana è molto più brutale. Ciascuno di noi nei media, a teatro dovrebbe cercare una prospettiva da cui mostrare come il totalitarismo marcia in ogni paese; possiamo sentire il passo dei fascismi ovunque. È per questo che ho voluto legare Blind Runner ai migranti, a altre battaglie oltre a quella in Iran di persone che per la libertà rischiano la propria vita.

I due personaggi vogliono attraversare il Canale della Manica per arrivare in Inghilterra. Con la Brexit la rotta per mare da Calais è divenuta ancora più pericolosa per gli accordi tra Parigi e Londra e gli interventi violenti della polizia francese.

Non ho mai capito perché i paesi europei si lamentano dell’arrivo dei migranti, al contrario dovrebbero esserne felici e considerarlo come una possibilità di riscatto. Per abbassare il numero di persone che fuggono dalla loro terra potrebbero smettere di finanziare i conflitti in ogni angolo del mondo, ma continuano a farlo e a sostenere regimi totalitari, le loro marionette piazzate un po’ ovunque. Molte di queste persone erano più felici di rimanere nel loro paese, invece di affrontare la morte. I migranti africani che l’Europa vuole rimandare indietro se non avessero sottratto loro ogni risorsa, sarebbero più ricchi, non avrebbero necessità di partire. La narrazione delle destre è che i migranti sbarcano in Europa per «rubare» il lavoro o il benessere agli europei, senza voler vedere la realtà della storia e cioè che l’Europa li ha derubati per secoli. Nessuno vuole assumersi questa responsabilità e ammettere che ogni migrante ha il pieno diritto di stare qui finché si supportano le guerre, i totalitarismi, la violenza, l’oppressione di cui i funzionari europei sono complici. I lavoratori africani nelle industrie di cioccolata, nelle multinazionali dell’oro non sono retribuiti equamente. Ma il fatto che qui in Europa vogliamo pagare una tavoletta di cioccolata uno o due euro produce lo sfruttamento dei bimbi africani.

Perché ha voluto una protagonista cieca?

L’idea è venuta alla mia dramaturg, Samaneh Ahmadian, mi ha inviato un video con le gare paralimpiche dei corridori ciechi; ci sono sempre due persone, quella che corre è cieca, l’altra la indirizza, è quasi una danza con due corpi in un’anima che corrono mantenendo lo stesso tempo e lo stesso ritmo. In scena volevamo riprodurre questa fusione ma dovevamo trovare un legame fra le diverse storie e i due protagonisti. Ho iniziato a pensare a questo spettacolo prima del movimento esploso con l’omicidio di Mahsa Amini, ma è stato lì che è nata la connessione, vedendo quante persone avevano perduto un occhio e addirittura entrambi nelle manifestazioni per le pallottole sparate dalla polizia. Ho immaginato che il personaggio della donna che corre fosse una di loro, e che da cieca ha bisogno di qualcuno che corre insieme a lei. Questa cosa che le persone perdono un occhio alle manifestazioni per i colpi della polizia è terribile, e non accade solo in Iran ma in Francia e altrove. Mi colpisce che un governo arrivi a dare ai poliziotti armi del genere e licenza di utilizzarle, così come che questi stessi armamenti – almeno secondo alcune inchieste – sono venduti all’Iran dai paesi europei. Dunque da una parte si condannano gli ayatollah, dall’altra gli si danno le armi per la repressione. È una contraddizione per non chiamarla una vera ipocrisia.

Amir Reza Koohestani
Amir Reza Koohestani © Bea Borgers

Diceva che «Dance of Glasses» era troppo ottimista. L’ultima rivolta esplosa in Iran nonostante la repressione violentissima sembra avere cambiato qualcosa nel profondo, a cominciare dal coinvolgimento dell’intera società.

L’ottimismo di cui parlavo si riferisce a me stesso. Il movimento e la resistenza che abbiamo visto in questi mesi crescere in Iran, soprattutto da parte delle donne ha toccato molti aspetti della società arrivando persino a alcuni settori del governo. Le persone hanno pagato un prezzo altissimo per questo, quindi credo che si deve essere più pazienti. Una rivoluzione può avere dei tempi lunghi, cambiare un governo o un regime può essere molto veloce ma in un paese come l’Iran che ha vissuto rivolgimenti radicali nella struttura stessa del paese, la rivoluzione in sé forse non è a breve termine. Nella resistenza delle donne, e ancora prima di Mahsa Amini c’è un cambiamento di tutto il sistema, che viene chiesto da almeno venti anni, e non riguarda solo i palazzi governativi ma comincia dalle relazioni col partner, coi figli, i fratelli, il padre nella vita quotidiana investendo ogni iterazione come individuo e con la società. Aspettarsi una «fast food revolution» che risolve tutto e subito può dare delusioni, sono convinto invece che sostenere la resistenza delle donne produrrà un cambiamento lento ma a lungo termine.

Come ha lavorato per ricreare la corsa nello spazio chiuso della scena?

Trovare un linguaggio teatrale per la corsa è stata una vera sfida. Abbiamo tentato diverse modalità poi Eric Doyer, che cura luci e scenografia, ha proposto un lungo corridoio in cui gli attori vanno avanti e indietro costantemente dando al tempo stesso l’idea di corsa e di prigionia, di slancio e di essere in gabbia. Questa duplice tensione fra movimento e immobilità è una cifra che caratterizza tutti i miei lavori.

Quanto è difficile per un artista che proviene da una realtà diversa rispetto a dove abita, raggiungere un equilibrio fra la libertà delle proprie scelte e ciò che si vuole da lui? Ho l’impressione che fin troppo spesso dagli artisti legati a paesi che vivono situazioni complesse si pretende parlino solo di questo. In qualche modo è una permanenza di un «colonialist gaze».

La difficoltà di trovare un punto di in contro fra le aspettative altrui e quello che vuoi davvero è enorme. Mi è capitato che qualcuno chiedendomi se ero stato in prigione in Iran rimanesse quasi deluso dalla risposta negativa. La questione è non farsi rinchiudere nel frame che è stato creato per te e però anche poter rappresentare una situazione, come per me la realtà iraniana, che conosci meglio di altri. Dopo venti anni che lavoro, ora fuori e prima in Iran, continua a esserci l’ etichetta che ti incollano in automatico; da me si aspettano spettacoli sulla situazione iraniana o sui problemi che ho come outsider o migrante. Che io possa portare in scena un dramma borghese è inimmaginabile, è un privilegio riservato ai registi locali, bianchi, europei e uomini perché anche le donne spesso devono rispondere alle aspettative. L’equilibrio in questo è sempre una sfida. Quando si parla del movimento delle donne iraniane è così naif pensare a un gruppo di donne che non sono connesse alla stessa lotta per l’eguaglianza di diritti, di salari nel resto del mondo. C’è una strofa nella canzone del movimento Donna Vita Libertà che dice combattiamo anche per gli alberi di Vila Street, delle piante secolari in una strada di Tehran. La loro resistenza non è solo contro l’oppressione ma per il progresso, con obiettivi uguali a quelli dei movimenti delle donne in tutto il pianeta, ovvero cambiare le strutture dominate dal maschile.

In Germania e nel resto d’Europa e in America in questi mesi si è scatenata una censura inedita rispetto al massacro compiuto in Palestina. Lei cosa ne pensa?

Quando siamo scesi in strada contro la guerra in Ucraina abbiamo gridato: «no alla guerra» due parole semplici che non significano dire la guerra qui sì, là no. Non ci sono giustificazioni per le guerre o per uccidere persone innocenti, e questo vale in Ucraina, il 7 ottobre al rave, e per gli oltre trentamila civili uccisi in Palestina. Qquando qualcuno politici o giornalisti le cercano è una pura menzogna. È stato uno shock inq eusti mesi quando in Germania hanno silenziato persino gli intellettuali o gli artisti ebrei che criticavano la guerra con la scusa dell’antisemitismo e dell’Olocausto. Un’assurdità.