La relazione tra pittura e poesia è antichissima: basterebbe richiamare il celebre assioma di Orazio, ut pictura poësis, per ricordare che i poeti hanno da sempre percepito e teorizzato una affinità tra queste due arti in realtà piuttosto distanti, non fosse altro che per la diversità dei codici (semantico la poesia, asemantico la pittura) che esse utilizzano.

È sempre illuminante, dunque, leggere le pagine di critica d’arte scritte da un poeta, specie se quel poeta possiede l’intelligenza e la sensibilità di Giorgio Orelli, di cui l’editore ticinese Casagrande ha recentemente pubblicato, a cura dell’ottimo Ariele Morinini, Struttura luce poesia. Gli scritti sull’arte (pp. 184, euro 28). Sull’esempio del grande maestro Gianfranco Contini, di cui fu allievo all’università di Friburgo, a partire dal 1950 Giorgio Orelli si cimenta per una sessantina d’anni (l’ultimo intervento è datato 2013, anno della sua morte) in una serie non fittissima di scritti d’arte, confrontandosi soprattutto con l’opera di pittori e scultori amici e conterranei come, per citare solo i più ricorrenti in queste pagine, Ubaldo Monico, Massimo Cavalli, Giovanni Genucchi e Pierino Selmoni.

SI TRATTA DI CONTRIBUTI originariamente apparsi su quotidiani, cataloghi di mostre, riviste, opuscoli di sala e volantini di invito, nei quali la voce di Orelli risuona con la consueta verve e forse con un tono particolarmente affabile e quasi familiare, specie quando si abbandona, soprattutto negli scritti meno antichi, alla narrazione biografico-aneddotica. Ariele Morinini, sia nell’introduzione sia nel ricco saggio finale che correda il volume, illustra con acume e limpidezza la qualità e le caratteristiche dello sguardo di Orelli sull’arte figurativa, che al poeta ticinese interessa proprio quando si propone come poesia, ovvero come «sintesi essenzialmente lirica»: sulla scorta di un celebre motto di Saba fin troppo citato e travisato, Orelli ammira negli artisti elettivi la «profonda onestà» che permette loro «di non recitare farse», di agire «con molta fedeltà alla natura della propria ispirazione», evitando gli eccessi e il tecnicismo (che non è sinonimo di tecnica), così come gli intellettualismi o la radicalità delle tendenze più contemporanee.

Tra i passaggi più godibili e indicativi della concezione di Orelli dell’arte, ci sono per esempio le righe in cui ammira «l’attenzione vigile, affrenatrice» che permette a Massimo Cavalli di dominare «l’eccitabilità che avrebbe potuto incoraggiarlo a una “azione” più diretta», o le ironiche geremiadi sull’esplosione della pop art alla Biennale di Venezia del 1964, o ancora il sospetto verso gli «eccessi di certo espressivismo avventuroso» che l’amico scultore Giovanni Genucchi sa evitare.

ORELLI PREDILIGE insomma gli artisti che chiama, con un termine machiavelliano, «respettivi», ovvero quelli che in ogni tempo, «dal Trecento in su, fino a Morandi» (pittore amatissimo), hanno saputo dare «esempi di un’arte davvero essenziale per definizione, che contiene i propri motivi per entro il suo parlar segreto, di qualità intima». Con il che si arriva a un altro pregio di questo libro: se è vero infatti che quest’ultima definizione richiama quella che Montale propose per la sua stessa poesia («un frutto che dovesse contenere i suoi motivi senza rivelarli»), il lettore incontrerà in queste pagine una fitta ragnatela di citazioni e di rimandi letterari che si stratifica nel tempo e serve anche a illuminare meglio l’opera poetica dello stesso Orelli, come accade non di rado leggendo gli scritti sull’arte dei poeti che, come lui, possiedono «una visione aperta e permeabili delle arti» (Morinini) e un orecchio e un occhio sensibilissimi.