Il fuoco amico colpisce nuovamente Joe Biden e, stavolta, con maggiore precisione e chiaro intento politico. David Axelrod, stratega dell’amministrazione Obama e architetto delle sue due fortunate corse presidenziali, consiglia al presidente in carica di farsi da parte.

E di non ricandidarsi alle presidenziali del 2024, tra un anno esatto. Lo scorso settembre David Ignatius, opinionista del Washington Post, aveva scritto, a freddo, un editoriale dal titolo inequivocabile: «Il presidente Biden non dovrebbe ricandidarsi nel 2024». Per l’età avanzata – too old – e per le sue evidenti difficoltà psicofisiche e cognitive. A Ignatius si associa poi una star del giornalismo tv, Joe Scarborough. Rivela che in privato non c’è esponente democratico che non gli confidi il proprio timore per l’inadeguatezza di Biden contro un avversario come Trump.

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MA QUESTA VOLTA il tweet di Axelrod e le sue successive dichiarazioni alla Cnn sono politiche. Vengono dalla persona più vicina a Obama e sono collegate ai recenti sondaggi eseguiti per conto del New York Times in sei stati chiave decisivi nel 2024, cinque dei quali “campi di battaglia” in cui il candidato democratico in pectore insegue in grande affanno Donald Trump.
Il repubblicano è dato per favorito in Pennsylvania di 4 punti percentuali, in Michigan e Arizona di 5 punti, in Georgia di 6 punti e in Nevada addirittura di 10 punti. Solo nel Wisconsin Biden è in vantaggio, di due punti. Al ripetersi di sondaggi da tempo negativi a livello nazionale, e ora anche in Stati in bilico cruciali, s’aggiunge il fattore tempo che diventa un dato politico importante, essendo il voto per le presidenziali tra un anno. Cioè domani. Il momento per prendere una decisione è adesso, in modo da predisporre e far crescere una candidatura alternativa. Che peraltro non può essere quella di Kamala Harris, messa anche peggio di Biden nei sondaggi.

NEL MARZO 1968, a otto mesi dalle presidenziali, il presidente democratico Lyndon Johnson annunciò che non si sarebbe ricandidato. Fu uno shock, perché un presidente in carica si presenta sempre per un secondo mandato. Ha un vantaggio in partenza rispetto allo sfidante, dato dal fatto che beneficia di maggiore esposizione mediatica, pure gratuita, e dispone di leve di potere che può anche usare a fini elettorali.

JOHNSON FU un presidente che la storia ricorda per il pacchetto di importanti riforme sociali ed economiche – la Grande società – ma soprattutto per la guerra in Vietnam in pieno svolgimento sotto la sua amministrazione, che portò, appunto, alla sua disgraziata uscita di scena. Biden si muove nel solco del predecessore texano. Rilevante la sua politica di riforme e di interventi di rammendo della disastrata rete infrastrutturale americana, apprezzabile il suo impegno sul fronte dei diritti civili e a sostegno dei lavoratori, l’attenzione ai temi della sanità, della scuola, dell’edilizia sociale. Non altrettanto si può dire della politica internazionale, con due guerre in corso, esplose sotto la sua amministrazione e non senza una sua responsabilità, fosse solo pure quella di aver sottovalutato e non prevenuto – per non dire, anzi, agevolato – l’arrivo delle crisi, peraltro in due quadranti da cui l’America ha da tempo in programma di svincolarsi, per concentrarsi su quelli asiatico e pacifico.

MA, PARADOSSALMENTE e diversamente da quanto accadde ai tempi di Johnson, è proprio sul fronte interno che Biden è più esposto politicamente e accumula crescente ostilità nell’elettorato.
Infatti a preoccupare forse ancora di più dei sondaggi elettorali, sono quelli riguardanti le aspettative degli americani sul terreno dell’economia. Un’ampia maggioranza di intervistati in un sondaggio Cbs pensa che starebbe finanziariamente meglio se fosse rieletto Trump. Ed è interessante notare che qui entra in gioco la guerra, ma per i suoi effetti negativi nelle tasche degli americani. Trump, pensa la maggioranza degli elettori, se rieletto presidente, tirerebbe fuori gli Stati uniti dai conflitti in corso, mentre con un secondo mandato di Biden le possibilità di essere in guerra sarebbero più alte.

SUL VERSANTE OPPOSTO la notizia della testimonianza di Donald Trump, a New York , nel procedimento per frode fiscale nei confronti del suo impero affaristico, fa certo gran clamore, ma più per le conseguenze della causa giudiziaria nel portafoglio del tycoon che per quelle politiche ed elettorali. Il vittimismo esibito anche ieri nell’aula di Manhattan – è una caccia alle streghe politica, ha detto Trump – ha ancora presa nella sua base.

LA FRAGILITÀ di Biden è un handicap elettorale che restringe drammaticamente anche i suoi spazi di manovra nelle crisi in corso. Benjamin Netanyahu, il primo ministro israeliano che più d’ogni altro predecessore, è dentro i meccanismi interni della politica americana, sta giocando spregiudicatamente la sua partita esistenziale dentro il perimetro della corsa presidenziale già in corso. Alleato di Trump, farà di tutto per azzoppare definitivamente Joe Biden.