Alias Domenica

Peccati occidentali dal ’68 a oggi: l’elegia mista dell’afroamericana Rita Dove

Dal documentario «Rita Dove: An American Poet», di Eduardo Montes-Bradley, 2014Dal documentario «Rita Dove: An American Poet», di Eduardo Montes-Bradley, 2014

Poesia satunitense «Playlist per l’apocalisse», da Interno Poesia

Pubblicato circa 6 ore faEdizione del 17 novembre 2024

La poesia statunitense odierna è un caleidoscopio in grado di creare un’invidiabile molteplicità di strutture asimmetriche. Il compianto Fredric Jameson suggerirebbe che all’origine c’è una sorta di «collasso nella catena del significante» e che quindi tale «dissociazione schizofrenica» ha il suo envers du décor in un paesaggio oggettuale, fatto di trappole e selve, impossibile da ricondurre a un’unità di motivi.

Un’autrice come Rita Dove, afroamericana classe 1952, originaria dell’Ohio, incarna perfettamente l’idea che la satura lanx – il piatto misto di pietanze formali e tematiche – sia costitutiva alla fase di assemblaggio lirico. «Variano i cuochi e le cotture», direbbe Montale. Playlist per l’apocalisse (a cura di Ana Ilievska, Interno Poesia, pp. 252, € 18,00), pubblicato in USA nel 2021, è esattamente questo: «un elenco di tutti i nostri peccati occidentali», così osserva la curatrice nell’introduzione.

Premio Pulitzer per la poesia nel 1987, scrittrice «cosmopolita e universalizzante» non soltanto femminista e black (secondo Arnold Rampersad), Dove mette insieme il sonetto e il blues, l’opera lirica e il rap, la semiotica pubblicitaria e il pezzo drammatico, la denuncia politica e i toni malinconici di un’elegia. In Playlist per l’apocalisse – suddivisa in sei sezioni ad alto tasso civile, «La freccia del tempo», «Dopo l’Egitto», «Grillo campestre», «Un testimone permanente», «Otto odi arrabbiate», «Piccolo libro dei lamenti» – assistiamo alternativamente al mambo borderline dell’ottuagenario Manny, alle nevrosi di un ascensorista del 1949 («una bolla di aria cattiva / in un sistema chiuso») o all’«Età del Chiacchiericcio» di Twitter e McDonald’s. Leggiamo la prima, spiazzante quartina di Sonetto trovato: La parrucca: «100% capelli umani, naturali; Yaki sintetici, miscela brasiliana, / malese, Kanekalon, Vergine peruviana, Pura indiana; / facile da stirare, resistente al calore; rimbalzo, volume, leggerezza, / Corti e coquette, Riccioli e giri, Lisci e lucidi e Lucidi e dritti». Confrontiamo la litania straniata con il malinconico adagio di Cittadina: «Lastricate le vostre strade e basta lamenti: / Qui le pietre ci sono in abbondanza, / Pietre e tempo e aria».

È evidente la dissociazione, se non frammentazione, del soggetto scisso tra fonderie, Terezín, dichiarazioni di «interdipendenza», cosmesi, giornate della gioventù («qual è quella parola che il Reverendo ha usato durante / il sermone domenica scorsa? Ah, ecco: eteree»), aubade a est e a ovest, doppiaggi, rosari di medicinali, zuppe. Come nota ancora Ilievska, la silloge «si apre con una meditazione sulla differenza tra prosa e poesia e si chiude con una traduzione di Wandrers Nachtlied (Il canto notturno del viandante) di Goethe. Nel mezzo abbiamo il Ghetto di Venezia, il figlio bastardo mulatto di Thomas Jefferson, le Torri Gemelle, Shakespeare, Trayvon Martin, le Alpi e il Rosenkavalier, Euridice e il Muro di Berlino, quanto una madre con l’Alzheimer, l’amore, il ballo, il dolore provocato dalla sclerosi multipla».

A cosa conduce tanta discontinuità? La scrittura – o meglio l’écriture (in senso derridiano) – di Dove, musicale e nervosa, precisa quanto erratica, si serve delle mercificazioni consumiste, accogliendole nel tessuto verbale, per ribadire l’eccezionalità della posizione del poeta effigiato dal «grillo campestre»: egli considera la questione della negritudine e getta la spugna per l’insolvenza altrui, si lamenta, festeggia tristemente o ironicamente San Valentino, si scaglia contro i critici, fa il verso all’hip hop, sempre però affermando la caducità e validità del suo «mestiere», il destino di un canto rimasto inudito e inaudito. «Mi preferite invisibile, non più / di un saluto croccante lontano / dalle vostre sete e legna e lane. // Lontano dagli occhi, sono appena un fastidio, / una sottile, ostinata ruga nella notte / che sprofonda in trance. / (…) Come al solito, non state ascoltando». Suo prosecutore è il «testimone permanente» che occhieggia statuario alla ricerca della Verità e ripercorre la storia americana dal Sessantotto a Trump in un gravoso, allucinato tour de force.

Sfilano nel tremolante proscenio della poesia la cultura hippy e Woodstock, Muhammad Ali («Titano color caramello»), lo scandalo Watergate, l’Iran, l’era dell’AIDS, i tremebondi anni novanta («Chi non vorrebbe essere un Milionario, / o una vera Principessa o Re del Mondo? / Mappa i tuoi geni e fai un piercing all’ombelico: // Spice Girl! / Accendi i circuiti nella tua PlayStation – / se ti piace il Game, Boy, solleticherò il tuo Elmo! / Che fa il tuo Tamagotchi? // O, Mario!»). E infine: l’amministrazione Obama e le porte del tramonto. Se la politica è già nell’intimità (come suggerisce un collega di Dove, Forrest Gander), le variopinte emozioni della poesia ci riadducono alla speranza come «ultima parola pronunciata». Una torcia, una fontana, le «costole dorate di una cattedrale». La prova di ricucitura spirituale sembra ancora possibile. Nel cielo biblico in cui si raccoglie il vento della pietà.

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