A 170 giorni dalle elezioni, i due candidati si sono accordati sui dibattiti televisivi. I confronti erano inizialmente sembrati in dubbio ma d’improvviso Biden ha accolto le ripetute sfide lanciate da Trump. Nel farlo, il presidente ha citato Clint Eastwood. “Vuoi dibattere?” ha detto Biden in un video rilasciato da Washington.  “Make my day, amico. Basta che dici dove a quando.” Così, con un doppio moto di machismo ottuagenario, il paese si ritrova con in programma non uno ma due duelli tv. Uno a settembre e il primo addirittura a fine giugno, ben prima delle convention, in barba, appunto, alle convenzioni, che vorrebbero che i candidati vengano prima ufficialmente acclamati dai rispettivi partiti.

Nessuno nel campo Biden finora era sembrato ansioso di mettere lo stagionato presidente in campo nell’imprevedibile formato del dibattito in diretta TV, ma il fatto che il democratico sembra arrancare nei sondaggi ha finito per forzare la sua decisione.  È così immediatamente partito il toto-previsioni su chi trarrà maggiore vantaggio dal formato che non prevede pubblico e, su richiesta di Biden, par condicio rigorosamente imposta da microfoni che si spegneranno dopo interventi alternati di 5 minuti a testa. Le misure pensate per ridurre la debordante tracotanza dell’avversario.

Tallone di Achille di Biden è chiaramente la precarietà dei riflessi attenuati dall’età (o, secondo Trump, la sua precoce demenza). Paradossalmente la campagna incentrata sull’incompetenza senile di Biden ora preoccupa Trump che teme di aver abbassato le aspettative al punto che il presidente rischia, comparativamente, di fare bella figura, come già accaduto a gennaio, nell’ultimo discorso al Congresso sullo stato dell’unione.

Per mettere le mani avanti Trump ha suggerito che un eventuale buona performance di Biden sarà giocoforza dovuta all’uso di stimolanti ed ha chiesto un esame antidoping che certamente sarebbe il primo negli annali dei dibattiti politici. Per Trump invece il rischio sono le gaffe e le astruse tangenti che caratterizzano i suoi chilometrici comizi (di recente il repertorio comprende elogi di Hannibal Lecter e Al Capone) e che in questo contesto potrebbero far virare la performance da “smargiassa simpatia” in “bizzarra prevaricazione.”

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Cionondimeno, i due candidati sarebbero convinti ognuno di aver messo nel sacco l’avversario: Trump è certo che le telecamere riveleranno un anziano impappinato; Biden che esporranno il narcisista sproloquiante al ludibrio generale. Corre voce che dietro le quinte, molti nei rispettivi staff sudino freddo. Tant’è, il paese apparentemente non si sottrarrà allo spettacolo di una rissa fra seniors ad alto potenziale di imbarazzo bipartisan.

Sullo sfondo vi sono gli ultimi sondaggi che questa settimana danno Biden in leggero svantaggio rispetto ad un avversario che di fatto dirige la propria campagna dall’aula di un tribunale di Manhattan dove è in corso uno dei processi penali a suo carico. Specificamente, gli ultimi rilevamenti danno a Trump un vantaggio nella nazione che, usando le abbreviazioni dei sei stati che finiranno per decidere il presente degli Stati uniti, potremmo chiamare MIWINEGAPAAZ. Michigan, Wisconsin, Nevada, Georgia, Pennsylvania e Arizona sono i cosiddetti swing states in cui i margini sono abbastanza stretti da favorire potenzialmente l’uno o l’altro candidato e assegnare la manciata di delegati necessari per aggiudicarsi il collegio elettorale. Nell’aberrante sistema di democrazia indiretta, saranno quindi i meno di 30 milioni di aventi diritto in questi sei stati (possibilmente per un margine di poche decine di migliaia di voti) a decidere le sorti del paese.

Quello che emerge altresì dai sondaggi è che non sarà l’accresciuta popolarità di uno o dell’altro candidato a determinare il risultato ma il consenso che entrambi rischiano di perdere rispetto all’ultimo confronto di quattro anni fa. Nel gioco alla sottrazione, che certamente determinerà una forte flessione dell’afflusso, è più vulnerabile Biden, passibile di perdere pezzi della sua coalizione, soprattutto fra giovani, minoranze e sul fianco sinistro. Una situazione frustrante per un presidente che non sembra riuscire a giovarsi di indicatori su economia, lavoro e welfare che in tempi normali avrebbero assicurato una rielezione.

In tempi di post politica, invece, e di rigurgito populista, l’elezione è destinata a giocarsi ancor più interamente sulle percezioni. Un’equazione in cui continua a svolgere un ruolo di rilievo Robert Kennedy Jr. e la sua campagna rigorosamente scevra da discernibili contenuti “politici”  ma che continua ad attirare numeri sostanziosi di elettori (forse il 10%-15%) con appelli generici al “superamento della crisi” al “centrismo” e ad un vago mix di complottismo light, tecnofilia e aura new age – indice della aleatoria volitività di un elettorato che potrebbe, sottraendo anche un piccolo numero di voti nel sistema maggioritario vigente, determinare la vittoria ad uno o all’altro candidato principale. La campagna di Rfk Jr. è ben finanziata principalmente dalla sua candidata vice, Nicole Shanahan, imprenditrice di Silicon Valley ed ex moglie del fondatore di Google Sergey Brin, attivissima sui social media.

Sulle equazioni “matematiche” della campagna grava comunque lo strascico irrisolto della tentata sovversione del 6 gennaio 2021. Trump torna infatti a minacciare di non riconoscere il verdetto delle urne qualora non dovesse “essere quello giusto”, una calcolata insinuazione che pende damoclea sulla maggiore democrazia occidentale, prospettando la vittoria di Trump o un nuovo imprevedibile conflitto ed una crisi costituzionale.

A questo riguardo, questa settimana vi è stato anche un promemoria del ruolo che svolgere la Corte Suprema in un eventuale contenzioso post elettorale (come avvenne nel 2000 fra Bush e Gore). Anche allora la sentenza determinante della Cassazione fu a favore del repubblicano. Questa volta però, se fosse necessaria, a emetterla sarebbe un massimo tribunale blindato da togati reazionari (6 su 9) fedeli a Trump. Quanto fedeli? Il New York Times ha rivelato che nei giorni di tensione seguiti all’assalto a Capitol Hill tre anni fa, uno dei togati, Samuel Alito, ha issato per diversi giorni davanti alla propria dimora, una bandiera americana rovesciata –lo stesso simbolo utilizzato dai sovversivi filotrumpisti.