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Andy Rocchelli e Andrej Mironov, la Corte dell’Aja: «Si può indagare»

Andy Rocchelli e Andrej Mironov, la Corte dell’Aja: «Si può indagare»Andrei Mironov e Andrea Rocchelli

Ucraina In Donbass nove anni fa, il 24 maggio 2014, venivano uccisi i due giornalisti, assassinati a colpi di mortaio dalle truppe ucraine. I genitori: «Vogliamo solo giustizia»

Pubblicato più di un anno faEdizione del 25 maggio 2023

Sarà il tribunale dell’Aja a esprimersi sull’uccisione dei reporter Andy Rocchelli e Andrej Mironov, assassinati a colpi di mortaio il 24 maggio 2014, mentre facevano il loro dovere di cronisti durante le prime fasi del conflitto nel Donbass.

LA FAMIGLIA DEL GIOVANE fotografo pavese si è appellata all’apposita commissione istituita nel marzo scorso con lo scopo di indagare su tutti i crimini di guerra commessi in territorio ucraino a partire dal novembre 2013 – richiesta che, proprio negli scorsi giorni, la Corte penale internazionale ha confermato di aver recepito, considerandola «ammissibile da un punto di vista formale».

«L’obiettivo che ci proponiamo – ci ha dichiarato la madre di Rocchelli, Elisa Signori – è porre fine all’impunità per questo delitto, consapevoli di difendere così la vita di civili e giornalisti che operano in scenari di crisi e di guerra». Ma quel che è certo, mentre ricorre il nono anniversario della morte di Andy e Andrej, è che il trionfo della giustizia appare ancora molto lontano.

Era il 30 giugno 2017, quando l’ex soldato della Guardia Nazionale ucraina Vitali Markiv fu arrestato dai carabinieri all’aeroporto di Bologna. Markiv – in quanto dotato di doppio passaporto era processabile nel nostro Paese – nel maggio 2014 si trovava col suo reparto sulla collina di Karachun, alle porte della città di Sloviansk, nella posizione da cui – secondo le ricostruzioni degli inquirenti – partirono le salve di mortaio che uccisero i giornalisti.

LA SPARATORIA SI SCATENÒ quando Rocchelli, Mironov, il reporter francese William Roguelon e il tassista che li accompagnava si avvicinarono al passaggio a livello che segnava il punto di confine tra il territorio controllato dalle truppe di Kiev e quello occupato dai separatisti, che all’epoca presidiavano Sloviansk.

I quattro si buttarono in un fossato, dove li raggiunse un quinto uomo in abiti civili, ma presto la traiettoria degli spari si spostò in direzione del loro nascondiglio: Andy e Andrej morirono sul colpo, mentre Roguelon, colpito alle gambe da diverse schegge, riuscì miracolosamente a mettersi in salvo dopo aver trascorso lunghi minuti accanto ai corpi senza vita dei suoi compagni. «Appena vediamo un movimento, noi carichiamo l’artiglieria pesante – aveva confidato Markiv alla giornalista Ilaria Morani, poche ore dopo l’accaduto -. Così è successo con l’auto dei due giornalisti e dell’interprete».

Condannato a 24 anni in primo grado per concorso in omicidio, Markiv è stato assolto in appello e ha potuto fare ritorno in Ucraina. Anche la corte di secondo grado che ha scagionato l’ex militare, tuttavia, ha confermato il dato più importante emerso dall’istruttoria: i colpi di mortaio che uccisero Rocchelli e Mironov furono sparati dalla collina di Karachun – e dunque, dall’armata di Kiev. Ma a Karachun non c’era soltanto la Guardia Nazionale di Markiv: gran parte del presidio, in quei giorni, era composto dagli uomini della 95a Brigata Aviotrasportata, i quali – sempre secondo i giudici – erano gli unici ad avere a disposizione armi pesanti.

NEL 2021, ASSIEME al collega Giuseppe Borello, chi scrive ha iniziato un lungo lavoro d’inchiesta proprio sul ruolo della 95a Brigata. Ne è uscito un lungo documentario dal titolo “La disciplina del silenzio”, trasmesso da RaiNews24 all’inizio del 2022. Studiando gli elenchi dei disertori dell’esercito ucraino, abbiamo trovato un nuovo testimone, un ex soldato della 95a che quel giorno era in servizio in cima alla collina.

«La mia postazione di vedetta si trovava esattamente di fronte al passaggio a livello – ci ha raccontato -. Ricordo benissimo cosa accadde in quel momento, quando i miei compagni avvistarono l’auto con a bordo i giornalisti. Il nostro comandante, il generale Mychajlo Zabrods’kyj, diede l’ordine di fare fuoco. “Quelle persone non devono stare lì”, gridò. Forse credeva che si trattasse di separatisti in abiti civili, o magari sospettò qualche altra cosa. Sparammo con il Vasilek, un mortaio automatico di fabbricazione sovietica, e gli ultimi colpi si abbatterono proprio sul fossato».

Le affermazioni dell’ex soldato di Karachun sono state confermate sia da una serie di riscontri fattuali (le modalità di sparo di Vasilek, ad esempio, sono perfettamente sovrapponibili con i ricordi di Roguelon, che parlò di «raffiche di colpi esplosi in rapida successione», che da altre testimonianze raccolte nei mesi successivi.

IL GENERALE ZABRODS’KYJ, che nel 2019 è stato eletto nel parlamento ucraino e nominato membro del gruppo di amicizia interparlamentare con l’Italia, non è mai comparso in nessuna aula di giustizia. Eppure era lui – per sua stessa ammissione – il comandante in capo di tutte le forze ucraine che nel maggio 2014 presidiavano Karachun. Forse l’epilogo di questa terribile storia – se mai ci sarà – dovrebbe partire da qui.

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