“Ancora una volta la nostra è una irrisolta domanda di verità e giustizia per un delitto che la magistratura italiana definisce un crimine di guerra, ma su cui si stende l’oblio”. Con queste parole Elisa Signori Rocchelli, la madre di Andrea Rocchelli, ha spiegato sul portale internet dell’associazione Articolo 21 la scelta di rivolgersi alla Corte penale internazionale dell’Aja per ottenere una nuova indagine, ora che la Cpi ha deciso di verificare attraverso un apposito organismo presieduto dal procuratore Kharim Ahmad Khan tutti i possibili crimini di guerra commessi in Ucraina a partire dal 2013.

Andrea Rocchelli era un fotoreporter del collettivo Cesura. È stato ucciso dall’esercito ucraino nel mese di maggio del 2014 mentre era al lavoro nel Donbass con l’attivista russo Andrei Mironov, anch’egli morto nell’agguato. Rocchelli aveva trentun anni, Mironov sessantuno. Un altro fotoreporter, William Roguelon, di nazionalità francese, è miracolosamente sopravvissuto alle ferite. Proprio le sue dichiarazioni hanno permesso di ricostruire quanto accaduto.

Fatali per Rocchelli e per Mironov sono stati i colpi di mortaio esplosi in una lunga e terribile sequenza da una collina chiamata Karachun, nei pressi della cittadina della Slovyansk, che era sotto il completo controllo della 95esima brigata delle forze armate e della Guardia nazionale ucraina. Con una brillante inchiesta giornalistica realizzata per l’Espresso e RaiNews, i giornalisti Andrea Sceresini, Giuseppe Cataldo e Giuseppe Borello hanno ricostruito la catena di comando degli uomini appostati a Karachun e sono arrivati al generale Mikhailo Zabrodksyi. Sempre nel 2014, pochi mesi dopo la morte di Rocchelli e Mironov, Zabrodksyi è entrato alla Rada con il partito dell’ex presidente Petro Poroshenko. Nel corso della legislatura ha persino fatto parte del gruppo parlamentare di amicizia Italia-Ucraina.

Sull’andamento delle indagini hanno pesato le sospette omissioni delle autorità ucraine. Soltanto nel 2017 i carabinieri del Ros di Milano sono arrivati all’arresto di un uomo della Guardia nazionale, Vitaly Markiv, con doppio passaporto, italiano e ucraino. Due anni più tardi il Tribunale di Pavia lo ha condannato in primo grado a ventiquattro anni di carcere per il ruolo nel duplice omicidio. Tanto la fase delle indagini è stata segnata da omissioni, quanto il processo da una pesante campagna di interferenze e intimidazioni che ha avuto fra i protagonisti un ex ministro dell’interno ucraino, Arseny Avakov, legato agli ambienti ultranazionalisti. Di fronte a distorsioni, forzature e depistaggi usati per riscrivere le circostanze intorno alla morte di Rocchelli e Mironov, l’Italia si è mostrata passiva forse anche alla luce di considerazioni di carattere politico.

Nel 2020 la Corte di Appello di Milano ha confermato per intero la ricostruzione degli eventi che aveva portato alla condanna di Markiv. Eccependo, tuttavia, sul metodo con cui erano state raccolte le testimonianze di otto dei suoi commilitoni. Quegli uomini, secondo i giudici, dovevano essere sentiti “alla presenza di un difensore” dato che potevano esistere “fin dall’inizio della loro deposizione, indizi di correità”. La Corte ha, quindi, escluso le deposizioni, senza ordinare nuovi esami. Di conseguenza Markiv è stato scarcerato “per non avere commesso il fatto”. Una volta a Kiev ha ripreso servizio al ministero dell’interno, nell’ufficio che si occupava dei rapporti con i governi della Nato. Nel 2021 la Cassazione ha confermato l’orientamento della Corte di Appello. Si è così arrivati alla paradossale situazione per cui da una parte la giustizia italiana ha chiarito le responsabilità del duplice omicidio, ma dall’altra ha stabilito che i responsabili non si possono perseguire. “Oggi abbiamo la verità, ma non la giustizia”, hanno detto Elisa Signori e il marito Rino Rocchelli, difesi dall’avvocato Alessandra Ballerini e sostenuti dalla Federazione nazionale della stampa, alla vigilia dell’ultima sentenza.

“L’obiettivo che ci proponiamo da otto anni e più”, ha detto Elisa Signori Rocchelli ad Articolo 21, “è di porre fine all’impunità per questo delitto, consapevoli che in tal modo difendiamo la vita dei civili e dei giornalisti che operano in scenari di crisi e di guerra. L’impunità è una garanzia e una rassicurazione per chi, colpevole di crimini, può continuare a commetterli. Dunque va combattuta”.