Un gruppo di vecchi hippy rende omaggio ogni anno all’icona più selvaggia del rock. Sono soprattutto ucraini, ma tra loro c’è chi viene anche dai Paesi baltici. Si ritrovano a Leopoli (Lviv), la metropoli più occidentale dell’Ucraina a meno di settanta chilometri dal confine polacco. Lo hanno fatto per decenni, sotto gli occhi vigili della polizia politica del regime sovietico, non si capisce perché dovrebbero smettere ora che da quelle parti la democrazia sembra cominciare a godere di una qualche, seppur incerta fortuna.

Se questo è lo sfondo di Jimi Hendrix a Leopoli (Keller, pp. 398, euro 18,50, traduzione di Rosa Mauro), come in tutti i romanzi di Andrei Kurkov, molti dei quali già pubblicati dall’editore trentino che vanta un’affascinante catalogo di letteratura dell’Europa centro-orientale, la fantasia, l’ironia e il sogno sembrano moltiplicarsi nell’intreccio delle storie e delle personalità dei personaggi. Così, in questo caso, per le strade sconnesse del vecchio centro, il destino degli eterni fricchettoni si intreccia con quello di un ex ufficiale del Kgb che ha passato una vita a spiarli, e ammirarli in segreto, nel tentativo di scoprire quale minaccia pesi sulla città che da capitale dell’Occidente profondo del Paese sembra in preda ad una nebbia salmastra che porta gabbiani e alghe neanche si fosse per i vicoli di Odessa a guardare le onde del Mar Nero.

Tra gli scrittori ucraini più noti e apprezzati a livello internazionale, autore di una ventina di romanzi, tra cui Picnic sul ghiaccio, Il vero controllore del popolo, L’indomito pappagallo, La pallottola in cerca dell’eroe (tutti per Keller), Kurkov sarà questa sera alle 18,30 a Trento – Giardino dei Poeti in via Orfane 9 alle – per la serata conclusiva del festival Geografie sul Pasubio.

In questo romanzo, come nei precedenti, emerge la tenerezza dello sguardo che porta sulla realtà, al pari di come evoca il mondo animale non solo nelle storie dedicate ai più piccoli. Le è ancora possibile farlo, malgrado la realtà in cui è immerso ora? Quale spazio resta per la fantasia dentro al conflitto?
Dall’inizio della guerra non ho aggiunto una sola parola al romanzo su cui stavo lavorando al momento dell’invasione. La realtà che mi circonda è così orribile e violenta che non riesco nemmeno a pensare alla finzione. E non riesco neppure a leggere romanzi. Valori e principi che mi ispirano non sono cambiati, soltanto è come se li avessi congelati, sperando di poterli scongelare poi, dopo la guerra, almeno per provare a tornare a scrivere con lo stesso stile e con lo stesso atteggiamento di prima nei confronti sia dei miei personaggi che della vita. Tendenzialmente ho sempre amato tutti i miei personaggi, sia positivi che negativi. Ora però credo che la nozione di «negatività» vada ripensata: dopo tutte le atrocità commesse dall’esercito russo in Ucraina, anche i personaggi più negativi che ho creato sembrano non essere poi così terribili, incarnano al massimo una specie di male «piccolo», non davvero pericoloso.

Nella storia, un ex capitano del Kgb, Rjabcev vuole scusarsi con gli hippy che ha spiato per una vita, e su tutti con Alik attraverso il quale ha imparato ad amare il rock e quello stile di vita così libero rispetto ai rigidi dettami dell’ideologia sovietica. Un bel sogno o una possibilità concreta nelle società post sovietiche?
Penso entrambi le cose. Conosco dei casi simili a quello del capitano Ryabcev. Ad esempio un ex ufficiale del Kgb ha scoperto la religione e poi è stato ordinato sacerdote. E devo ammettere che sarei pronto a partecipare alla mensa o ai servizi religiosi gestiti da un ex spione. Del resto, in Unione sovietica la Chiesa ortodossa era molto legata al Kgb e al Partito Comunista.

Nel romanzo emerge come una memoria «alternativa», figlia delle culture giovanili e del rock sia cresciuta malgrado la repressione e il controllo sociale nell’ex Urss. Sono «segreti» di questo tipo che città come Leopoli, Kiev o Odessa hanno conservato fino ad oggi?
Credo si possa affermare che in molte grandi città sovietiche ai tempi dell’Urss le culture underground erano addirittura più forti e radicate di quella ufficiale. E le tracce di tutto ciò non smettono di riemergere. Così, sono stato molto sorpreso di vedere come i miei figli, quando erano adolescenti, si siano interessati così tanto alla cultura hippy e abbiano fatto amicizia con i miei vecchi amici hippy, come Alik Olisevich e altre figure citate nel libro che sono persone reali cui anche nella storia ho dato il loro vero nome.

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Nei «Diari ucraini» (Keller, 2014) ha raccontato lo sviluppo della protesta di Maidan. In Europa si è parlato molto del ruolo dell’estrema destra in quel movimento, ma al tempo stesso per gli ucraini si è trattato di una «rivoluzione». Dieci anni dopo come racconterebbe «la sua» Maidan e l’eredità di quella stagione?
Si è trattato sicuramente della prima apparizione politica della nuova generazione ucraina che non aveva più alcun legame con il passato sovietico. È vero che c’erano dei radicali e degli estremisti, ma hanno sempre rappresentato una tale minoranza che ad esempio a Lviv (Leopoli), la città considerata la capitale della cultura ucraina ma anche del nazionalismo, gli studenti hanno respinto Yuriy Michalchishin uno dei leader più attivi dell’estrema destra, non lo hanno voluto ascoltare. Quel movimento ha dimostrato che la nuova generazione del Paese vuole politici nuovi e un nuovo futuro per l’Ucraina. Perciò, in breve, «il mio» Maidan ha segnato la nascita della nuova Ucraina europea.

Lei è nato nella zona di Leningrado, quando ancora esisteva l’Urss e scrive da sempre in russo, come altri noti autori ucraini. Si parla molto del «confine linguistico» in seno alla società ucraina, tema spesso evocato anche dalla propaganda del Cremlino, ma fino a che punto questo argomento è davvero fonte di divisioni, lei come vive la cosa?
Oggi, a causa della guerra, si registrano molte più divisioni tra gli intellettuali di lingua russa e quelli di lingua ucraina, anche se questo non avviene quasi tra le persone comuni, per strada. La questione della lingua è stata manipolata dal Cremlino ed esasperata anche da alcuni politici ucraini che su questo tema hanno cercato di raccoglier i consensi degli ambienti radicali. In realtà, ci sono città e villaggi di lingua ucraina nel Donbass e di lingua russa nell’Ovest del Paese. E, allo stesso modo, metà dei soldati ucraini impegnati al fronte parla russo e metà ucraino. Eppure, ora, il russo è etichettato come «lingua del nemico». Vladimir Rafeenko, uno scrittore russofono del Donbass, che ha dovuto fuggire prima da Donetsk e quindi da Bucha, ha annunciato che non scriverà mai più una parola in russo dopo quello che è accaduto. Altri autori sono passati dal russo all’ucraino già prima dell’invasione. Mentre altri, me compreso, stanno ancora scrivendo in russo. Ma ho deciso di non pubblicare più i miei libri in russo fino alla fine della guerra. Saranno pubblicati in Ucraina e solo in ucraino per ora.

In alcune interviste si è definito come «un ucraino nel senso politico del termine». Da cosa nasce il suo amore per questo Paese e cosa significava il suo essere ucraino prima del 24 febbraio e cosa significa oggi?
A partire dall’indipendenza del 1991 sono stato felice di accettare l’Ucraina come la mia patria, il mio Paese. Ho amato e amo l’Ucraina per il suo spirito libero, per il rispetto che c’è dell’idea che ognuno è diverso e ognuno ha opinioni e idee diverse. Sono di origine russa, i miei genitori erano russi ma ho imparato la lingua ucraina da adolescente. L’Ucraina era ed è un Paese di individualisti dalla mentalità forte, la Russia è un Paese che mi sembra dominato da una mentalità collettiva in cui le persone non amano essere personalmente responsabili delle proprie vite e meno che mai delle proprie azioni. Ho vissuto in prima persona tutte e trenta le vite dell’Ucraina indipendente, senza censura, senza controllo statale o di polizia, ma ovviamente non senza problemi. Questo Paese mi ha reso forte e non mi arrendo mai anche quando devo misurarmi con diverse istituzioni statali o con politici e oligarchi corrotti, come Victor Medvedchuk che ora è finalmente in prigione, ma che ha rappresentato a lungo la forza trainante di tutte le operazioni pro-Putin in Ucraina.

Il suo ultimo romanzo, «Api grigie» che presto sarà tradotto anche in Italia, da Keller, racconta la storia di un apicultore del Donbass: si tratta del luogo dove tutto ha avuto inizio, il libro ci aiuterà a capire perché siamo arrivati fin qui e come le persone hanno vissuto tutto ciò?
Credo proprio di sì. Il romanzo è ambientato nel 2017, dopo l’annessione della Crimea e l’inizio della guerra nel Donbass. Spiega il passato e annuncia il futuro che si sta realizzando ora, con la guerra d’invasione della Russia. Allo stesso tempo, non è un romanzo politico né un romanzo di guerra con scontri e battaglie. È una storia che racconta da un punto di vista profondamente umano come la guerra influenzi la vita delle persone ordinarie che per caso diventano parte loro malgrado degli eventi bellici. Ed è una storia che spiega come la guerra cambi anche il sapore del miele.