«Mentre scrivo, a tarda sera, sento distintamente le spallate dell’artiglieria che scuotono l’aria. Gli ordigni sfondano la principale centrale elettrica della città. Kiev in poche ore potrebbe restare al buio. E a quel punto solo l’alba potrà dirci quanto sangue è stato versato. Si rischia una carneficina d’altri tempi. Vecchi fucili contro i cingolati. Bottiglie incendiarie contro i blindati».

Come gli abitanti di Kiev, anche lo sguardo di Nello Scavo, i suoi timori e le sue attese sono cambiati giorno dopo giorno nel corso dell’ultimo mese e mezzo, seguendo le traiettorie mutevoli e la geometria asimmetrica della guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina. Al punto che Kiev (Garzanti, pp. 158, euro 15), il diario che l’inviato speciale di Avvenire ha tenuto «dal fronte», non racconta solo quanto è accaduto, e sta continuando tragicamente ad accadere, ma conduce letteralmente «dentro la guerra», tra gli umori, i sentimenti e le emozioni che l’animo umano sprigiona a contatto con la barbarie.

MALGRADO LO SGUARDO del cronista contempli, magari anche solo inconsciamente, l’idea che dall’inferno osservato, che costituisce invece «la vita» stessa di molti dei propri interlocutori, si potrà fare più o meno velocemente ritorno ad una dimensione e ad affetti domestici, le pagine di Scavo sono intrise di quei sentimenti, di un’empatia che seppur magari per un solo istante testimonia della relazione che si è stabilita tra chi osserva e chi viene osservato. Di fronte al rischio di una cinica spettacolarizzazione di questa come di altre tragedie, Kiev racconta di come si possa scrutare la cupa profondità dell’abisso senza perdere neppure per un’istante la propria umanità. E il proprio profondo rispetto per gli esseri umani cui è toccato in sorte il ruolo di vittime, ma che non per questo hanno smesso di resistere con ogni mezzo.

Nello Scavo arriva nella capitale ucraina il 21 febbraio con l’idea di spostarsi rapidamente verso il Donbass, da dove sarebbe stato più facile osservare l’ultimo approdo di un conflitto iniziato per molti versi già nel 2014 con reciproche violazioni di accordi e cessate il fuoco e pesanti conseguenze sulla popolazione civile. Ma è a Kiev che all’alba di tre giorni dopo la guerra lo sorprende con tutto il suo minaccioso fragore. Le inquietudini della vigilia si trasformano in incubi concreti. Agli occhi del reporter i locali eleganti e le vetrine luccicose cedono il passo ad «una città spettrale, silenziosa, senza quasi nessuno per le strade. Chi non è riuscito a fuggire è rintanato negli scantinati, nei sottopassi della metropolitana, nei garage trasformati in rifugi antiaerei».

Per oltre un mese il quesito che accompagna gli abitanti della città e coloro che come Scavo cercano di raccontarne un quotidiano scandito dai lamenti delle sirene, dai boati delle esplosioni, dalla minaccia di cecchini o infiltrati è se «Kiev si prepara a morire nel silenzio o a perire combattendo?». Anche per chi, come l’inviato del quotidiano cattolico, di guerre, dai Balcani in poi, passando tra le altre tragiche tappe per la Siria, in trent’anni di mestiere ne ha già raccontati parecchie, «Kiev è un’altra storia». Scavo non usa mezze misure o giri di parole per comunicare il proprio stato d’animo: «Non potevo immaginare che il dolore di tutte le guerre, che le lacrime di ogni vedova, che il pianto di ogni orfano incontrato in questi anni si ammassassero all’improvviso, in un solo sordo colpo, proprio qui, alle 4:50 del mattino. Nella città dove tutto è azzurro e oro».

QUANDO, dopo 18 giorni, Scavo rientra a Milano, Kiev è ancora sotto le bombe, la possibilità che la morsa dei russi si allenti, anche se solo per un breve periodo, non è ancora in vista. Ad attenderlo, l’immagine di un Paese dove si guarda a quanto sta avvenendo come se si assistesse ad una partita di calcio: dal comodo divano del proprio appartamento, dilettandosi in fini analisi geopolitiche. Ma per chi quei volti, quelle voci, quel dolore li ha incontrati di persona, c’è la consapevolezza che «la guerra non si dimentica. E le storie non ti abbandonano mai».

Trent’anni fa, di fronte all’assedio della città bosniaca , Alex Langer ammoniva sul fatto che «l’Europa muore o rinasce a Sarajevo». Parole che forse anche Scavo ha in testa quando riflette su quanto ritorna «di frequente tra noi corrispondenti della prima ora»: l’attacco ai civili segna il definitivo passaggio dell’azione di Mosca «dalla strategia militare al disegno terroristico». Ora, «Sarajevo è più vicina».