Visioni

Anatomia di una Mostra anfibia tra famiglia, fluidità e futuro

Anatomia di una Mostra anfibia tra famiglia, fluidità e futuroUna scena da «All the Beauty and the Bloodshed» di Laura Poitras

Venezia 79 Le figure femminili, le emozioni delle scoperte, la paura della morte

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 11 settembre 2022

Sul Lido che si è ormai svuotato degli accreditati per lasciare il posto al pubblico del sabato sera della premiazione, c’è il sole di un settembre estivo, dalla finestra della sala stampa si vedono le vele in mare e chi ne approfitta per gli ultimi bagni di stagione. In attesa dei Leoni d’Oro la domanda obbligata è: che cosa ci ha raccontato Venezia 79 tra gli schermi, i red carpet, i divi per giovanissimi, le visioni cinefili e i traballanti blockbuster dello streaming Netflix? Abbiamo provato a tracciare un percorso fra quelle suggestioni che ritornano tra autori e immaginari più diversi, segno di un’inquietudine e di una domanda del tempo.

INTERNI FAMIGLIARI. Non hanno mai smesso di essere il terreno archetipo su cui confrontarsi col mondo tra le emozioni delle sue scoperte e quel sentimento di una possibile rivolta che proprio nell’origine dei tabù può iniziare. Stavolta appaiono però più spesso come lo specchio deformato – e deformante – di malesseri apocalittici o di una fragilità disinformata. È qui che si muove Noah Baumbach per la sua rilettura di DeLillo in White Noise, il film di apertura, disagio e spaesamento di una coppia e dei loro figli di fronte a una possibile catastrofe.

E ancora Love Life di Koji Fukada, il senso di colpa dei legami famigliari e delle loro biologie. Monica di Andrea Pallaoro, il ritorno di una figlia che non si riconosce più – come non si è voluta riconoscere in passato la sua scelta esistenziale di diventare donna – e l’apprendistato (sentimentale) per imparare a ritrovarla e soprattutto a accettarla. Una figlia e una madre «fuori posto» sono i riferimenti di Emanuele Crialese in L’immensità, autobiografia del regista ma soprattutto il tentativo di raccontare la ricerca di un posto nel mondo. Un padre e un figlio sono invece i (pomposi) riferimenti per Florian Zeller in The Son. Ancora al femminile invece la relazione per Joanna Hogg e il suo Eternal Daughter, il lutto come visione di fantasmi di fronte alla perdita della madre.

FLUIDITÀ DI «GENERI». Non solo il queer o le storie di persone trans che si sono intrecciate attraverso le sezioni – pensiamo a un film come Casa Susanna di Sebastien Lifshitz, alle Giornate degli Autori o Anhell69 alla Sic – divenendo il punto di partenza per dare voce a un malessere che investe il sentimento collettivo. C’è una fluidità del cinema che la rispecchia, immaginari che sfuggono alle formattazioni e ai codici che eliminano la sensualità, confondono la provocazione con lo stile tronfio. È la fluidità morbida attraverso i generi (melo, horror, on the road…), le passioni cinefile, la forma politica di Luca Guadagnino nel suo magnifico Bones and All, un’adolescenza cannibale che è una storia d’amore e di rivolta attraverso il Midwest impoverito degli anni Ottanta di Reagan.

Panahi che torna in assenza con No bears, una commuovente riflessione sul cinema e sul ruolo del cineasta a partire dalla propria condizione di artista sotto arresto condannato all’invisibilità. Raccontare una relazione dal punto di vista di chi l’ha sofferta: Un couple di Frederick Wiseman, le lettere di Sofia Tolstoj al marito, mai in campo, che diventano un ritratto di donna, la meraviglia di un’attrice, un’invenzione di cinema. Fluidissimi tra le nuove regole di Hollywood – nel segno di una indipendenza – Walter Hill e Paul Schrader.

RITRATTI DI DONNE (IN FIAMME?). Era un altro dei grandi temi, la donna, eguaglianza, inclusione che a volte suona un po’ un pretesto. Dalla pre-apertura nel segno di Stella Dallas – melò disturbante su una figura femminile che è anche anatomia impietosa del sistema delle classi in America. Una donna lesbica direttrice d’orchestra e le sue contraddizioni nelle relazioni amorose è la figura assoluta protagonista di Tar, film monumento eretto per la sua protagonista, Cate Blanchett, senza grandi scalfiture narrative. Teso e invece costruito sulla scommessa del proprio soggetto, inciampi compresi, è Saint Omer, l’esordio nella «finzione» – anche questo in senso molto fluido – di Alice Diop. Laura Poitras nel suo All the Beauty and the Bloodshed, trasforma il ritratto di Nan Goldin, nell’istantanea della generazione no future anni 80 ma felice, del Lower East Side newyorkese, e in una dichiarazione politica contro la famiglia Sackler responsabile dello spaccio legale di antidolorifici oppiodi che hanno ucciso 400mila persone. Tutto il contrario di Rebecca Zlotowsky nel suo codificatissimo Les enfatns des autres sui tardivi desideri di maternità.

C’è chi poi le donne le massacra perché gli fanno paura: Blonde di Andrew Dominik, una crociata contro l’icona della rivolta nell’America degli anni Cinquanta, che con la pretesa di indagare il mito di Marilyn Monroe dall’interno, lo fa a pezzi nel segno di un neo-conservatorismo puritano. Il punto più basso della Mostra.

MORTE TRA PASSATO E FUTURO. È stata la Mostra nella quale la paura, l’attesa e l’arrivo della morte hanno pervaso gli immaginari degli autori prima, degli spettatori, dopo. Solo per citare alcuni titoli del concorso, si è iniziato sin dal film di apertura, White Noise di Noah Baumbach con i protagonisti cristallizzati nella loro condizione esistenziale di esseri umani, paralizzati nel circolo vizioso della vita che per essere vissuta non dovrebbe mai pensare alla propria fine. E si è proseguito con Bardo, falsa crónica de unas cuantas verdades di Alejandro G. Inarritu, film fin troppo prolifico di parole e immagini, di storie inventate e reali, di film nel film, di un paese, il Messico, che conta senza fermarsi le sue vittime, e di personaggi che sono incerti tra un al di là e un al di qua. In attesa che tutto si compia è Charlie, il personaggio che troviamo in The Whale di Darren Aronofsky. Un uomo disperato e, al tempo stesso, che prova a rimettere a posto le cose, a lasciare in pace il mondo, quanto meno quello immediatamente circostante. Una morte accidentale e una voluta per mano di una madre accadono rispettivamente in Love Life di Koji Fukada e, in Saint Omer di Alice Diop. Personaggi che nel loro esistere vorrebbero guardare avanti e, invece, sono richiamati al loro passato.

IL LIDO. È il teatro più vissuto, amato odiato rifuggito avvolgente come una coperta – o una spirale. Si pensa di conoscerlo e invece riserva sempre qualche inaspettata sorpresa.

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