I film per lui erano «Frammenti di Paradiso» nei quali provava a restituire gli scorci di bellezza che si aprivano al suo sguardo: emozioni, incontri, un fiore, il sorriso di un volto amato, i passi traballanti dei suoi bimbi, i sorrisi dei suoi amici. E le lunghe conversazioni intorno al tavolo del loro «loft», i passaggi del tempo, le memorie anche quelle rimaste un po’ indietro perché cariche di dolore, la sua amatissima città, New York. Tutto diventava immagine, filmare era un gesto quotidiano col desiderio di cogliere «la realtà nella vita e non di documentarla». È dentro questo flusso di emozioni amoroso di cinema che si muove KD Davison per il suo Fragments of Paradise, che si è aggiudicato il premio come Miglior documentario nella sezione Venezia classici, tra le visioni più commuoventi della Mostra e documento prezioso di un pensiero dolcemente rivoluzionario che immagina pensa e vive il cinema come uno spazio di invenzione contro le estetiche dominanti. Non un semplice ritratto di Jonas Mekas ma attraverso gli archivi infiniti di una esistenza il racconto di un immaginario, di un’epoca, di un cinema, di una città, New York, a cui era profondamente legato.

UN POETA Jonas Mekas, e musicista, animatore di immaginari antagonisti, critico, teorico, restauratore, archivista, distributore. Il «Santo protettore dell’underground» lo chiamavano. Diceva: «L’unico modo di salvare l’uomo è incoraggiare il suo senso di rivolta e di disobbedienza». Lui per farlo aveva scelto le immagini sempre pacificamente. Era arrivato in America nel 1949, insieme al fratello Adolfas, dalla Lituania fuggendo i nazisti e l’esercito sovietico; i due erano finiti in un campo di concentramento tedesco, avevano sofferto fame, violenze, poi erano finiti tra gli sfollati e infine imbracati su una nave per l’America.

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La mia vita, un lungo diario filmatoEra allora che aveva comprato la sua prima Bolex 16 mm, non se ne separerà mai se non per sperimentare dopo le nuove possibilità che la tecnologia gli offriva, il video, gli smartphone. E filma, filma tutto, le strade della sua nuova città che scopre, e impara a conoscere e a amare, la sua solitudine, il sentimento dell’esilio, la polvere del tempo; da Williamsburg si sposta a Manhattan, cammina e filma, filma e cammina, spettacoli off, manifestazioni contro l’atomica, mostre. Inizia così il suo viaggio nel cinema che non è mai una sola cosa, Hollywood, documentario, finzione. Le sue recensioni sul «Village Voice» diventano l’appuntamento più atteso per una nuova generazione di cineasti, Scorsese, Bogdanovich, Jarmusch. Mekas non parla dei film mainstream ma di quelli che nessuno vede e lui non capisce perché, disseminando così nuovi orizzonti dello sguardo. Poi arriva «Film Culture» perché in America non c’erano i «Cahiers du Cinéma», e la Film-makers Cooperative per far circolare visioni fuori norma.

VIENE ARRESTATO perché proietta a Cinema 16, divenuto riferimento per tutti i giovani, Flaming Creatures di Jack Smith e poi Scorpio Rising, aveva già capito quanto la cultura queer fosse un pezzo fondamentale in quella lotta contro il sistema di un’America bigotta e poliziesca che aveva arrestato il suo amico Ginsberg e che guardava scandalizzata e con terrore quei movimenti antagonisti allo spirito della caccia alle streghe, alla guerra, alle repressioni – come il Living Theatre di cui Mekas filmerà «clandestinamente» The Brig.

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Jonas Mekas che ci portò il nuovoIl film di Davison attraversa gli anni sulla linea di quella che è la narrazione nei film-diario dello stesso Mekas in cui, appunto, tutto è vita e non c’è una separazione: l’incontro con sua moglie, la nascita dei figli, e l’apertura dell’Anthology Film Archive – che fu una sfida enorme – i viaggi, il ritorno in Lituania, e l’incontro con la madre dopo tanto tempo, lo spostamento progressivo del cinema in nuovi luoghi, le sue «moving images» che diventano installazioni, mostre, la sua musica, gli scritti, l’amore del suo pubblico, la separazione. La regista utilizza gli archivi di Mekas – tra i quali ha passato un anno – con anche materiali inediti, e le voci di chi gli è stato accanto, la famiglia, i figli, registi come Jarmusch o Scorsese, che condivideva quel mondo come Ken e Flo Jacobs. Ci si poteva perdere e invece Davison mantiene la sua direzione e riesce a restituire l’essenza profonda del suo soggetto, quei suoi «momenti di bellezza», la passione, il gioco, il piacere di uno stare al mondo per reinventarlo.