Il titolo del nuovo lavoro di Steve McQueen, Occupied City, presentato fuori concorso al festival, ha una doppia valenza. Dove l’occupazione a cui si fa riferimento è sì quella nazista, analizzata in minuziosi dettagli topografici nel libro della giornalista olandese Bianca Stigter, Atlas of an Occupied City (Amsterdam 1940-1945), da cui è tratto il film; ma anche l’occupazione «virtuale» del Covid. McQueen (che è partner di Stigter, con cui vive ad Amsterdam), ha infatti girato questa docu-installazione di quattro ore e più (estratte da trentasei, tutte in pellicola 35mm) durante il lockdown.

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«Sunshine State», nei sogni traditi d’AmericaFONDAMENTO concettuale del progetto – che evoca sinfonie urbane tra l’avanguardia e Thom Anderson- è il corto circuito tra passato e presente. Il primo è descritto, via per via, piazza per piazza, numero civico per numero civico – in un alternarsi fantasmatico di edifici e luoghi che esistono tutt’ora o che non esistono più – in termini deliberatamente clinici dalla voce dell’attrice/cantante inglese Melanie Hyams. Ad ogni indirizzo è associata una storia – di arresti, esecuzioni, tradimenti, manifestazioni, deportazioni, l’occasionale atto di eroismo- e sono associati dei nomi. Il secondo, ovvero il presente, è affidato alle immagini, impassibili anche loro, e studiatissime a cui ci ha abituati McQueen. Diversamente, per esempio, da Sergei Loznitsa che si interroga sugli errori e/o gli orrori del passato scavando ossessivamente nel found footage, e diversamente da un precedente lavoro di Stigter sull’Olocausto (il documentario Three Minutes: A Lenghtening quasi interamente affidato a 180 secondi di girato catturati in un villaggio della Polonia, nel 1938), McQueen esclude dalla sua riflessione l’immagine d’archivio.Fondamento concettuale del progetto, un corto circuito che lega passato e presente

«L’IDEA era di osservare quello che stava succedendo adesso, piuttosto che quello che succedeva ottant’anni fa. E di vedere i paralleli. Non mi è nemmeno venuto in mente di ricorrere agli archivi. Perché stiamo parlando del presente, non del passato», ha detto il regista in un’intervista a Deadline.
Le strade quasi vuote, i negozi sbarrati con le vetrine foderate di compensato, le file di fragili anziani in coda per la vaccinazione, i poliziotti con i manganelli che tengono a bada una manifestazione antivax , …le immagini della città durante la pandemia restituiscono in effetti l’impressione di una guerra, del coprifuoco. Restituiscono anche – e qui il film di McQueen è più problematico della sua premessa teorica- un’impressione di distacco quasi totale nei confronti delle realtà che ci scorrono davanti agli occhi. Un signore che nuota tranquillo in un canale, bambini giocano con le slitte su una collina nevosa, un gruppo di ragazzi che si fa uno spinello, gente al ristorante dove un tempo si distribuivano le razioni di pane…..Immagini così normali da essere «qualsiasi» nonostante la loro bellezza formale.
Occupied City, nella sua fluvialità, si pone come un film sul presente, ma lo sguardo di McQueen non è aperto, curioso (pensiamo ai film fiume di Wiseman o Wang Bing). Ha piuttosto un che di predeterminato, quasi accusatorio. Il presente sembra frivolo, superficiale, privo di memoria. A un certo punto, a forze di cortocircuitare temporalmente, viene addirittura il dubbio che McQueen stabilisca un’associazione tra le misure del lockdown e quella repressive dei nazisti (cosa che il regista ha negato in un’intervista a Indiewire).