In questi giorni numerosi media hanno accusato il ministro Giorgetti di progettare un taglio di 10 miliardi sul capitolo pensioni, estrapolando una sua dichiarazione in audizione parlamentare. In realtà quel taglio non ci sarà. Semplicemente perché c’è già stato. Il ministro dell’Economia infatti si riferiva al taglio della rivalutazione degli assegni «delle pensioni non troppo basse» – in realtà parte da 1.700 euro nette al mese – già previsto nell’ultima legge di Bilancio e con valore triennale.

Dato a Giorgetti ciò che è di Giorgetti, il Def pieno di austerità approvato ieri in Consiglio dei ministri prevede solo 3 miliardi per «misure espansive» – che verosimilmente saranno limitate a un taglio delle tasse e del cuneo fiscale – escludendo dunque completamente qualunque intervento di riforma delle pensioni nel 2023. Rimandato nuovamente la «cancellazione della Fornero» spergiurata ormai da almeno sei anni dal segretario del partito di Giorgetti: il sempre più fedifrago Matteo Salvini.

A fare una magra figura è anche la ministra del Lavoro Marina Calderone che da febbraio non convoca più il tavolo con le parti sociali che doveva portare all’auspicata riforma delle pensioni entro il 2023.

Al primo tavolo del 19 gennaio, alla presenza dei segretari generali di Cgil, Cisl e Uil, era stato Pierpaolo Bombardieri a chiedere in esplicito di «avere una risposta entro il 12 aprile: il governo intende inserire nel Def misure strutturali per la riforma delle pensioni, o se invece continuiamo a discutere?». Ebbene, ieri si è capito che non ci sono i soldi ma nemmeno si continuerà a discutere.

L’ultimo incontro si è infatti tenuto il 13 febbraio ed è stato condotto dal sottosegretario leghista Claudio Durigon. In quell’occasione l’inventore del flop Quota 100, che durante il governo Draghi si era dovuto dimettere per aver proposto di rinominare «Mussolini» il parco Falcone e Borsellino di Latina, aveva lanciato lo sconto previdenziale per le donne, con grande eco sui media: quattro mesi di anticipo per ogni figlio. Norma già prevista dalla riforma Dini del 1995, leggermente estesa – con il limite massimo di 12 mesi di sconto, pari a tre figli – anche alle lavoratrici che sono nel sistema misto. La misure sarebbe costata solo 700 milioni ma neanche questi ci sono più.

La figura peggiore però riguarda il mancato ripristino di Opzione donna, l’unica forma di uscita alternativa ai 67 anni lanciata da Maroni nel 2004 che prevede, per le lavoratrici con 35 anni di contributi e 59 anni di età, un ricalcolo pienamente contributivo dell’assegno con taglio del 30%. In legge di Bilancio il suo utilizzo era stato falcidiato per risparmiare: nel 2023 la possono utilizzare solo badanti, invalide civili in misura pari o superiore al 74% e chi è stata licenziata. Neanche il ripristino per tutte le categorie – come accadeva fino al 2022 – promesso da Calderone è stato possibile per vincoli di bilancio.

A questo punto Calderone e Durigon hanno astutamente deciso di non convocare più alcun tavolo né sul facile tema della previdenza complementare (allo stato costa zero o giù di lì) né sul tema centrale della flessibilità in uscita con i sindacati che chiedono la possibilità di andare in pensione dai 62 anni senza penalizzazioni.

La mancata riconvocazione del tavolo è riuscita nell’impresa di far arrabbiare perfino la Cisl che poi ha denunciato la nuova strada imboccata da Calderone: sostituire il tavolo con un organo tecnico dal nome assai semplice: l’«Osservatorio per il monitoraggio, la valutazione dell’impatto della spesa previdenziale e l’analisi delle politiche di revisione del sistema pensionistico». Il decreto istitutivo è stato firmato da Calderone il 23 marzo. Ma i 14 componenti più il presidente (sarà l’ineffabile Alberto Brambilla, l’inventore delle varie Quote 100, 102, 103?) non sono ancora stati nominati. Ma Calderone ci tiene a rassicurare la Cisl: i componenti non saranno solo tecnici, ci sarà spazio anche per i sindacati.