Da qualche settimana un fantasma si aggira per la campagna elettorale. Si chiama «rivalutazione delle pensioni» e fa talmente paura da aver creato un vero allarme.

«Nella prossima legge di bilancio 20-21 miliardi andranno alla rivalutazione delle pensioni», tuona l’ineffabile Alberto Brambilla, l’inventore dei flop Quota 100 e Quota 102 dalle colonne di Libero, che ha aperto l’edizione di martedì con il sobrio titolo: «Inflazione alle stelle, non ci sono i soldi per salvare le pensioni, per finanziare gli adeguamenti Istat ci vorrebbero 10 miliardi».

La realtà è molto diversa. Sia rispetto ai numeri che – soprattutto – ai saldi di bilancio derivanti dall’imprevedibile boom dell’inflazione.

Se è vero che la rivalutazione dell’assegno di pensione è agganciata all’inflazione, è altrettanto vero che la stessa inflazione ha prodotto un «tesoretto» di bilancio di entrate fiscali derivanti dall’Iva che ha finanziato in gran parte gli ultimi due decreti Aiuti del governo Draghi.

Dunque: se l’inflazione fa aumentare le entrate va bene. Se le fa uscire non va più bene. E si lancia l’allarme senza citare il «risparmio» precedente.

Ma c’è un’altra dimenticanza che rende l’allarme totalmente beffardo e ingiusto per i 16 milioni di pensionati italiani, il 30% dei quali (dati Inps) riceve un assegno sotto i 1.000 euro al mese. Come i pensionati (e solo loro, sembra di capire) sanno bene, con la riforma Fornero dal 2011 la rivalutazione degli assegni è stata bloccata, seppur a livelli diversi rispetto ai vari scaglioni.

Solo una sentenza della Corte Costituzionale del 9 novembre 2020 che dichiarò illegittima «la riduzione dei trattamenti pensionistici per la durata di 5 anni» ha sbloccato la rivalutazione ma nonostante ciò non è stata ripristinarla al 100% fino a quest’anno, con relativa proteste di Spi Cgil, Fnp Cisl e Uilp.

A tal proposito lo Spi Cgil stima «con un dato grezzo» che un assegno di pensione da 1.500 euro lordi (pari a circa 1.200 netti) abbia subito un taglio di 76 euro al mese. Ancora più alta la sforbiciata per una pensione da 2.100 euro al mese (pari a circa 1.700 netti): ben 134 euro al mese.

Il taglio complessivo è presto calcolato: in questi 10 anni di blocco un pensionato da 1.500 euro lordi al mese (1.200 netti) ha perso oltre 9 mila euro. Un pensionato da 2.100 euro lordi (1.700 netti) ha dovuto rinunciare a 16 mila euro.

«Gli effetti del blocco della Fornero sono soldi che i pensionati non rivedranno più – denuncia la segretaria nazionale dello Spi Cgil Daniela Cappelli – visto che la sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il taglio non è retroattiva. Va poi ricordato che la perequazione della pensione è una legge dello stato e applicarla è doveroso. Infine, non bisogna dimenticare che la rivalutazione arriva sempre con un anno di ritardo».

Proprio il decreto Aiuti ter di venerdì ha previsto un anticipo del 20% sul 2023 già coperto dalle risorse del «tesoretto» dell’effetto inflazione sulle entrate Iva.

Sulle stime dei costi della rivalutazione sul 2023 lo Spi è molto cauto. «Il dato dell’inflazione che andrà utilizzato lo avremo ai primi di ottobre – sottolinea Daniela Cappelli – . Si sta facendo un allarmismo sconsiderato senza una base precisa», sottolinea.

Ma la cosa che preoccupa realmente lo Spi Cgil è il rischio – alimentato da indiscrezioni del Sole24Ore – che il governo decida di intervenire nuovamente sulla rivalutazione. «Mi auguro che la fantasia del legislatore non arrivi a prevedere nuovi blocchi: i pensionati italiani sono già stati fin troppo impoveriti», conclude Cappelli.

Si tratterebbe infatti dell’ennesima beffa mentre bisognerebbe fare esattamente il contrario. Le pensioni sono minimamente garantite contro l’inflazione. I salari no. E forse sarebbe il caso di copiare riagganciandoli al costo della vita. E se non volete chiamarla «scala mobile», chiamatela «rivalutazione».