Visioni

«Allensworth», il razzismo in un prefabbricato

«Allensworth», il razzismo in un prefabbricatoUna scena di «Allensworth»

Berlinale 73 James Benning ha presentato al Forum il suo lavoro sulla «race town» californiana in dodici inquadrature

Pubblicato più di un anno faEdizione del 22 febbraio 2023

«Nel film ci sono quattro o cinque suggerimenti su cosa sia Allensworth, ma sono tutti falsi». Con queste parole James Benning introduce la première del suo nuovo film nella sala Delphi al completo. Riempita da un pubblico composito, giovane, non spaventato dalla radicalità formale del regista statunitense, habitué della sezione Forum della Berlinale dove solo lo scorso anno aveva presentato The United States of America. E se quel lavoro era come una collezione di sguardi sul Paese – seppure, anch’essa, guidata dal verosimile e non dal vero – Allensworth è come l’ingrandimento di una sola fotografia.

IL FILM è composto da dodici inquadrature fisse, ognuna occupa lo schermo per circa cinque minuti ed è legata a un mese dell’anno. Si inizia quindi da gennaio per arrivare a dicembre, a questa sequenza temporale corrisponde la mappatura dello spazio di Allensworth. Un luogo desolato, dove la variazione del brullo paesaggio nel corso dei mesi è minima. Al centro di ogni quadro c’è un edificio, sono prefabbricati molto modesti ormai abbandonati. Nei minuti che il regista ritiene adeguati alla visione – i suoi sono sempre anche film sul tempo della visione, nello spirito opposto alla velocità frenetica della nostra era – si iniziano a notare diversi particolari: sventola una bandiera della California, un treno passa vicino agli edifici mentre gli uccellini cinguettano.

«Sono cresciuto in una comunità povera piena di pregiudizi, ci odiavamo senza conoscerci» James Benning
«La vostra mente potrebbe vagare mentre guardate il film» dice il regista nel lungo dibattito che ha seguito la proiezione, e quando una spettatrice chiede a cosa vorrebbe che pensassimo in questa divagazione, Benning risponde: «Vorrei che pensaste ai vostri privilegi». Allensworth infatti non è un posto qualsiasi e lo capiamo quando, per il mese di agosto, al centro dell’inquadratura c’è una giovane ragazza afroamericana. Dietro di lei una lavagna, in mano un quaderno, inizia a leggere ad alta voce sfogliando man mano le pagine. Sono poesie che parlano di discriminazione e di dolore, ma anche di come gli abiti dei bianchi siano «morti»: non c’è futuro in quei panni. Il quadro è fisso, senza tagli, e la ragazzina legge senza mai un’incertezza quelle che scopriamo poi essere le parole della poetessa afroamericana Lucille Clifton. Scopriamo anche che il vestito della giovane è ispirato a quello di una studentessa dell’Arkansas negli anni ’50, quando per la prima volta alcuni alunni afroamericani furono integrati nelle scuole pubbliche, ma la ragazza, presentatasi all’ingresso principale e non dal retro come avrebbe dovuto, fu attaccata e insultata dalla folla.

LA VISIONE sarebbe enigmatica senza la spiegazione successiva del regista, che afferma: «Ho fatto questo film innanzitutto affinché si parlasse di Allensworth, affinché andiate su internet a cercare cosa sia». Benning spiega che un gruppo di afroamericani l’ha fondata nei primi anni del ‘900, stanchi dell’apartheid che subivano a Los Angeles. È una delle prime «race town», dove l’obiettivo era l’autogoverno delle black community. Il gruppo fondatore trovò solamente quelle terre, vendute loro al triplo del valore di mercato, mal posizionate in fondo a una conca. Ben presto l’agglomerato subisce numerose violenze razziste: l’acqua viene deviata da una diga rendendo impossibile la coltivazione, l’elettricità viene tagliata, la fermata del treno spostata. Tutti elementi che portarono presto all’abbandono del villaggio. «Allensworth per me è come una promessa non mantenuta. Ho pensato che riprendendola avrei potuto portare sullo schermo questi fantasmi che ancora la abitano. Io sono cresciuto in una comunità bianca molto povera impregnata di pregiudizi, con i neri si lottava per gli stessi posti di lavoro e sostanzialmente ci odiavamo senza conoscerci. È per questo che ho fatto il film, perché giunto ad ottant’anni spero finalmente di essermi liberato di questa eredità, ma non si è mai sicuri fino in fondo».
Il falso a cui il regista si riferiva all’inizio riguarda la circostanza per cui gli edifici non sono originali, ma ricostruiti negli anni ’70 quando della cittadina è stato realizzato un parco storico. La violenza subita però è reale, e le inquadrature senza tempo di Benning la portano fino a noi.

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