La vista di quei trattori e delle enormi macchine agricole costose quanto rumorose mi ha fatto riflettere su cose del passato che si ripresentano ora in chiave nuova. Mi ha spinto innanzitutto a chiedermi chi sono questi che protestano con tanta sicurezza.

E anche con baldanza in mezz’Europa e a Bruxelles. La risposta sembra ovvia: sono agricoltori perché tali si dichiarano e perché i giornali parlano della «rabbia degli agricoltori». Eppure qualche differenza ci dovrà pure essere tra l’ex-giudice Di Pietro, l’elegante signore presidente della Confagricoltura e il povero affittuario di un piccolo fondo agricolo tutti e tre in piazza.

Una volta, e fino a mezzo secolo addietro, era diverso: si usavano altri termini a cominciare da quello di contadino che ormai è scomparso come peraltro è quasi scomparsa la figura sociale del contadino. Ma rimane vero il fatto che la struttura sociale dell’agricoltura era – ed è – tutt’altro che omogenea, così come è non omogenea dal punto di vista di classe la composizione della gente che manifestava e manifesta a Bruxelles.

Questa reductio ad unum è politicamente utile per la destra ma non è corretta, come non lo erano a metà Ottocento i marxisti revisionisti – che definivano l’agricoltura un «vasto ceto medio», come se fossero tutti uguali.

La tematica della questione agraria – cioè del rapporto tra movimento operaio organizzato e contadini – era uno dei punti più importanti della strategia nelle discussioni interne ai partiti marxisti.

E a buona ragione: le aggregazioni interclassiste agricole e rurali come quella in atto a Bruxelles sono sempre state pericolose e hanno portato nel miglior dei casi al populismo, nel peggiore e più frequente a blocchi politici reazionari.

Oggi come in passato, differenze interne e interessi contraddittori sono presenti tra i manifestanti, come veniva spiegato nell’articolo su il manifesto di giovedì scorso di Fabrizio Garbarino, sottolineando la differenza tra quelli che ricevono dallo Stato decine e decine di migliaia di euro all’anno e coloro i quali arrivano a riceverne qualche migliaia.

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I primi prendono più soldi non solo perché sono più grandi ma perché producono a costi unitari sempre più bassi rispetto a quelli dei piccoli che vivono le effettive difficoltà. Infatti le grandi aziende sono all’avanguardia nella produzione e nella tecnologia.

La linea di sviluppo tecnologico dominante si fonda su tre cardini: in primis sulla chimica (per fertilizzanti e pesticidi), poi su una meccanizzazione sempre più costosa e basata su macchinari complessi e infine sulla ricerca biotecnologica (compresi più di recente gli Ogm, etc.).

Il sistema agricolo europeo si è basato e si basa a livello organizzativo su due fattori importanti che sono i contributi pubblici e il lavoro super sfruttato del bracciantato agricolo (costituito in larga parte degli immigrati che lavorano generalmente in condizioni indecenti). Ciò senza considerare l’effetto ambientale di pesticidi ed altri veleni usati con grande profusione. E la politica agricola comunitaria, a parte grandi operazioni retoriche, ha favorito sempre questo andamento.

Procedendo secondo il modello produttivo finora seguito le cose andavano bene -naturalmente molto più bene per i grandi, molto meno per i piccoli – fino a che si poteva seguire il modello californiano del cheap food-cheap labor: del produrre cibo sempre meno salutare e sempre più scadente attraverso un lavoro sempre meno pagato ( per altro motivo alla base di un così alto numero di lavoratori immigrati in agricoltura).

Sono ‘andate bene’ fino a che la politica agraria comunitaria, che è sempre stata altamente benevola nei confronti dei grandi produttori, non è stata costretta a imporre vincoli ambientali e controlli sulla nocività delle produzioni e del processo produttivo: un’amara sorpresa perché su quel meccanismo i grossi avevano prosperato. Da ciò la «rabbia dei coltivatori».

La protesta corporativa in atto, che ha un’antica tradizione italiana, è ora appoggiata da partiti e movimenti di destra, dalla Lega in primis e va contro gli interessi dei piccoli produttori, della gente e – va detto anche questo – del Paese.