Alfredo Cunha, uno scatto incontro alla storia
Intervista Dai servizi alle feste nuziali del profondo nord portoghese ai grandi reportage internazionali. Alfredo Cunha, l’autore degli scatti più celebri della Rivoluzione dei Garofani, racconta il suo modo di vedere il mondo e la realtà, mentre Lisbona gli dedica una mostra. «Così ho cercato di andare incontro alla storia»
Intervista Dai servizi alle feste nuziali del profondo nord portoghese ai grandi reportage internazionali. Alfredo Cunha, l’autore degli scatti più celebri della Rivoluzione dei Garofani, racconta il suo modo di vedere il mondo e la realtà, mentre Lisbona gli dedica una mostra. «Così ho cercato di andare incontro alla storia»
Alfredo Cunha, fotografo dal sapore antico, nasce nel 1953 nella provincia del nord del Portogallo, Celorico da Beira, pochissime migliaia di abitanti. Crescere dove la povertà è infinita e dove i contatti con il mondo sono pochi lo segna indelebilmente. Un periodo in cui c’era la dittatura, il fascismo, e la censura si preoccupava di stabilire di cosa si potesse parlare e cosa no. Quella è la provincia dove inizia a scattare insieme al padre: matrimoni.
E il passaggio dai matrimoni al fotogiornalismo?
A 18 anni frequentavo i movimenti hippies, per una estate, poi mio padre mi ha detto: ok ora vai a lavorare. Prima però ho fatto un viaggio in Svezia che ha definitivamente cambiato il mio modo di vedere le cose…
In che senso?
Io, prima di andare in Svezia, non vedevo la povertà, vedevo gli hippy. Ascoltavo i Beatles, i Doors i Rolling Stones, erano il mio quotidiano, ma la povertà non la vedevo. Ho cominciato a vederla quando, dopo aver passato del tempo in Svezia, sono tornato. I primi reportage sono in Portogallo, nelle zone periferiche di Lisbona, Amadora, nel nord.
E gli altri si accorgevano di cosa stesse succedendo?
Era normale, non avevamo mai visto altra cosa.
E poi il 25 aprile…
Erano le tre del mattino, io lavoravo in un giornale, O Século, ho sentito la notizia alla radio, sono sceso in strada ed ho iniziato a fotografare…
Ha mai avuto problemi con la censura prima del 25 aprile?
Sì mi sono state censurate alcune fotografie di un reportage che avevo fatto per O Século, mostravo le condizioni di vita negli ospedali.
C’erano dubbi sull’esito del colpo di mano?
Noi sapevamo che era finita, che non si tornava più indietro, perché il popolo era tutto in strada, quello che alla mattina era un colpo di stato nel pomeriggio si era trasformato in una rivoluzione. C’erano migliaia di persone e quando Salgueiro Maia, il capitano che comandava le truppe che attuarono il golpe, ha capito quello che stava succedendo, in un comunicato alla radio dichiarò: «Con noi abbiamo la marina, la forza area e – soggiunse – il popolo».
Che ore erano?
Erano circa le tre del pomeriggio.
Nessuno poteva immaginarlo fino a poche ore prima…
No, nessuno.
Il rapporto tra soldati e fotografo com’era? C’era il rischio di confronti aperti tra situazionisti e rivoluzionari?
Era molto buono, io avevo la loro età, parlavamo la stessa lingua, io ero come loro. Maia aveva 28 anni…
Ci sono stati momenti di tensione?
Si certo, in particolare io ne ho vissuti due, uno al Largo do Municipio, dove ci sono state sparatorie e poi a Largo do Carmo. C’era molta tensione, perché lì si era asserragliato il dittatore Marcelo Caetano e lì si svolgevano i negoziati per la resa dell’Estado Novo. Maia era preoccupato per l’incolumità delle persone e avrebbe preferito che io mi fossi allontanato (ride, ndr).
E poi?
Dopo il 25 aprile ci sono stati i due anni del PREC (Processo Revolucionario em Curso), manifestazioni ovunque, era una festa…
Ci sono fotografie che raccontano più dei libri di storia, come l’immagine dei container dei portoghesi che hanno dovuto abbandonare le «provincie d’oltremare» depositati sui docas di fianco al Padrão dos Descobrimentos, monumento fascista celebrativo dell’espansione coloniale.
Sì, qui inizia un’altra storia: quella dei retornados. Che poi non si dovrebbero chiamare così, sono portoghesi che vivevano in Africa da due o tre generazioni. Passavano qualche tempo negli hangar degli aeroporti, poco in realtà, perché Mario Soares ha cercato di reintegrarli in fretta…
Un 25 aprile fatto di varie sovrapposizioni: la rivoluzione, i retornados..
Certamente. I retornados erano arrabbiati, avevano perso tutto. La prima necessità per loro era quella di sopravvivere di integrarsi…
Il regime non ha mai ipotizzato che quella guerra potesse finire male…
La dittatura ha sempre evitato di negoziare, anche se era già da anni che i militari cercavano di avvisare i portoghesi in Africa che avrebbero dovuto prepararsi. Si doveva trattare quando si aveva la forza militare, non dopo.
Il Portogallo è cambiato molto da allora?
È cambiato in superficie. Il Portogallo è fatto da vari strati: Lisbona, Oporto, le grandi città e poi l’interno. All’interno del paese la tradizione è ancora forte.
Infatti le sue immagini sono senza tempo… potrebbero essere state scattate nel 2014 o negli anni settanta.
Sì, non mi interessa molto l’epoca, ma una certa maniera d’essere e di vedere le cose. Mi considero un fotografo umanista, la mia ispirazione sono i fotografi come Philip John Griffiths o Ferdinando Scianna.
Aveva la percezione che le sue fotografie sarebbero diventate storiche?
No, assolutamente no. In quel giorno erano in molti a fotografare, ma chissà, forse perché ho cercato di andare incontro alla storia. Non so perché, sono sempre riuscito a decifrare i segnali…
Come il primo piano di Maia.
Sì, sono stato anche fortunato, avrei potuto non fare quella foto. Nonostante tutto c’è una cosa che mi ha accompagnato sempre: la fortuna di capire le cose. Mio padre diceva: «Guardare e vedere, vedere e comprendere, comprendere e fotografare».
Si percepisce nel suo lavoro la costante che accompagna il rapporto tra la speranza e il suo tradimento, come la decolonizzazione e poi l’inizio delle guerre civili.
In Mozambico, nel giorno dell’ammainare della bandiera portoghese e l’issare di quella mozambicana, si percepivano già tutti i segnali di una guerra civile imminente, bastava saperli cogliere. Durante la festa per l’indipendenza c’era tensione.
Cosa ha significato in quel 25 aprile entrare nel palazzo della polizia politica (Pide)?
Non era la prima volta, io ci ero entrato la prima volta come prigioniero il 18, quando la redazione del giornale dove lavoravo era stata arrestata in blocco. Una settimana prima della liberazione ero lì a prendere schiaffi (ride, ndr), «lei è un comunista» mi gridavano contro i poliziotti. Subito dopo ci hanno rilasciati, ma quando sono entrato ero molto preoccupato. Chi entrava in quel posto raramente usciva, si andava nelle prigioni politiche.
Era nel Partido Comunista Português?
Sì.
Quindi tornare in quel posto per documentare la fine di quel regime…
È stata una vendetta (ride di nuovo, ndr).
Insomma, il 25 aprile è stato un successo…
Assolutamente sì. Non tutto è stato risolto, stiamo molto meglio, il cammino si fa camminando. Il problema è stata l’entrata della Troika nel 2011, fino a lì si diceva che il paese doveva migliorare. Passos Coelho, il primo ministro di centrodestra tra il 2011 e il 2015, invece ha introdotto una nuova retorica secondo la quale il nostro paese avrebbe dovuto accettare il peggioramento delle condizioni di vita, un discorso catastrofista.
E ora?
Ho molta fiducia nel nuovo governo, si è provato che si può governare a sinistra migliorando l’economia più di non quanto avesse fatto la destra. La troika rappresenta il fallimento del capitalismo, un atto di autofagia, il capitalismo che mangia se stesso.
I Portoghesi hanno la percezione di quanto sia cambiato il paese dopo il 25 aprile?
Sì, certo. Le persone più anziane si ricordano cosa fossero quei tempi ed hanno coscienza dei cambiamenti. E poi c’è una generazione che non ce l’ha.
Però nonostante le condizioni di vita siano migliorate lei ricerca sempre le stesse cose…
Sì, questo viene dalla mia infanzia. Un po’ come uno scrittore che scrive sempre lo stesso libro, io faccio sempre le stesse foto, sia in Nepal che in Guinea Bissau o in Cina, da qui la coerenza nel lavoro. Alcune immagini scattate in Portogallo negli anni settanta potrebbero rappresentare l’Iraq nel 2000, ma anche il Portogallo profondo di oggi.
E in questo Portogallo profondo la politica arriva?
Arriva, sì, ma arriva poco.
Una promessa tradita delle rivoluzione?
No, è un mondo che invecchia e che sparirà quando i suoi protagonisti se ne andranno.
Ancora una volta varie dicotomie, differenti strati…
Le immagini delle processioni a Fatima, un lato neorealista, un ambiente molto religioso, qui si vede il paese profondo, si trova di tutto, scatti che potrebbero essere stati fatti negli anni settanta.
Il Portogallo visto da Lisbona però appare molto secolarizzato…
È vero, ma all’interno permane una società molto conservatrice, tradizionalista, e comunque molto tollerante. Io vivo in questo mondo, la mia casa è all’interno del nord, a Vila Verde e da casa mia, attraverso Braga e poi Lisbona, percorrendo tutti gli strati del paese…
Lo sguardo di un provinciale.
Io sono un provinciale.
Dal Nepal, alla Cina, passando per Haiti per poi tornare a Vila Verde, non sempre è facile riuscire a stupirsi della realtà più prossima che ci circonda…
Ciò che mi preoccupa è il mio quotidiano, è ciò che fotografo, ciò che mi sorprende.
Le sue immagini mostrano i due lati estremi di modernità e tradizione…
Stiamo vivendo un’epoca di transizione. Certo, si è sempre in transizione, grandi cambiamenti dove ancora esistono e coesistono i due mondi. Nasce un nuovo ambiente, quello dei graffiti, che creano una tensione nella città, qui riesco a sintetizzare i vari strati. Una signora anziana di fronte al nuovo ambiente urbano, mondi paralleli, per la signora nella foto il murale alle sue spalle praticamente non esiste.
Dalla guerra coloniale ad altre guerre, cosa significa stare in uno scenario di conflitto armato?
Io non ci sono stato spesso, una mezza dozzina di volte, forse una decina. Non è molto, c’è chi ci passa la vita, io sono stato là varie volte, ma a me non piace si rischia di ferirsi (ride, ndr). Ci sono quelli a cui piace, non hanno paura. Io ho paura. Se devo andare vado, ma solo se ci devo andare…
In Iraq come è andata?
In Iraq sono stato varie volte, prima e dopo la guerra… ero appena uscito dalla caserma dei Carabinieri italiani quando c’è stato l’attentato di Nassiriya. Ero lì fuori nel mezzo di una sparatoria… nonostante il giubbotto antiproiettile e il casco sarebbe bastata una granata.
Come si gestisce la paura?
I fotografi sviluppano un falso senso di protezione, un falso senso di sicurezza che è dato dallo stare dietro una macchina, come se le cose dovessero succedere solo lì di fronte. A volte non è così.
Nelle sue foto quello dei bambini è l’elemento più ricorrente.
Una parte dell’esposizione è stata fatta in collaborazione all’Ami, una specie di medici senza frontiere portoghese, io ho fatto un libro per loro che si chiama Toda a esperança do mundo e le fotografie sono state fatte nel 2014-2015 in Niger, Iraq, Guinea Bissau…È un’eredità della mia infanzia, perché vivevo nel nord del paese, in una zona molto povera. I miei amici – erano gli anni cinquanta-sessanta – andavano tutti scalzi e anche se la mia famiglia non era povera, per non sentirmi diverso, anche io andavo scalzo per potere andare con loro, altrimenti non mi sarei sentito integrato. È così che la povertà infantile si è insinuata nella mia testa…
Il giorno più lungo e altre storie: una retrospettiva a Lisbona
Da poco inaugurata, si potrà vedere fino al 25 aprile presso la Cordoaria Nacional di Lisbona una mostra retrospettiva su Alfredo Cunha. 500 immagini attraverso le quali si (ri)percorre la storia portoghese e non solo di questi ultimi 40 anni.
Percorrendo le ampie sale della Cordoaria non si può non pensare a George Brassens, alle decine di Marche Nuptial che deve avere ritratto prima di trasferirsi nella capitale. E poi il viaggio in Svezia, il partito comunista, Lisbona e il fotogiornalismo.
Alle tre del mattino del 25 aprile del 1974 inizia la giornata più lunga: il colpo di stato, la Rivoluzione dei Garofani e il capitano Salguiero Maia, l’antieroe che guidò le truppe contro il regime dittatoriale di Marcelo Caetano. Poi il mondo, ancora i bambini, ma sullo sfondo sempre la provincia dove continua a vivere. g. ad.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento