Lisbona, bere e leggere con lentezza
Bar Seduti al tavolino accanto a Pessoa, alla Brasileira, restano solo i turisti: il caffè letterario è sparito
Bar Seduti al tavolino accanto a Pessoa, alla Brasileira, restano solo i turisti: il caffè letterario è sparito
Oggi si fa presto a dire «turistificazione», che secondo l’Accademia della Crusca è «l’insieme delle trasformazioni architettoniche, urbanistiche, sociali ed economiche dovute al sovraffollamento turistico», ma i primissimi a soffrirne e goderne sono stati proprio i cosiddetti caffè letterari. Un tempo ci si andava a discutere idee, abbozzare disegni e sbozzare riviste, oggi ciò che resta è il sovrapprezzo sul caffè per chi osa sedersi ancora a quei tavolini. Perché i caffè, quando sono davvero letterari, non sanno ancora di esserlo; quando scoprono di esserlo, sono già musei.
A Lisbona, quando i prezzi erano ancora schiacciati da un’economia tutto sommato depressa e il lisbonese medio doveva fare i conti solo con il suo basso salario e non tanto con il potere d’acquisto dell’europeo o dell’americano medio, alla Brasileira do Chiado già si veniva per sedersi dove si suppone si sedesse lui: Fernando Pessoa. Aperta nel 1905 da un emigrante che aveva fatto i soldi in Brasile con il caffè, la Brasileira era diventata subito meta di intellettuali e artisti. Oggi, per riferirsi a quel pugno di scrittori e pittori d’avanguardia, si dice ancora la «generazione di Orpheu», dal nome della rivista che nacque e circolò su quei tavolini nel 1915. Circolò poco, va detto, perché tra scandali e mancanza di fondi Orpheu andò all’inferno dopo due soli numeri trimestrali, ma bastò perché Pessoa, firmandosi Álvaro de Campos (uno dei suoi più straordinari eteronimi) pubblicasse l’Ode trionfale. Oggi chi va alla Brasileira (e chi non ci passa anche solo per caso? Il rione Chiado è il cuore pulsante di Lisbona) trova una statua a lui dedicata. L’inaugurazione del bronzo, il 13 giugno del 1988, a cent’anni esatti dalla nascita del poeta, inaugurò a sua volta, ben prima dell’invenzione dei selfie, il rituale della foto che ogni turista non manca di scattare sedendosi sulla sedia che lo scultore Lagoa Henriques ha lasciato vuota accanto al poeta, forse a significare un dialogo che ogni autore è condannato a intavolare solo con sé stesso.
Sempre in quel 1988, un paio di mesi dopo e poche centinaia di metri più in là, un grande magazzino della Belle Époque lisbonese andò a fuoco riducendo in cenere tutto il cuore pulsante della capitale. La ricostruzione, affidata all’archistar Álvaro Siza Vieira, fu lunga e faticosa, e senza turisti forse sarebbe andata peggio. Ma la sensazione di solitudine, non solo del Pessoa reale come del suo fantasma odierno, permane e prosegue negli altri bar e ristoranti dove visse, scrisse, forse amò e certamente bevve.
Senza addentrarsi nelle cartelle cliniche sulle cause della sua morte a 47 anni (cirrosi epatica o pancreatite?), pare che a Pessoa piacesse il vino di Abel Pereira da Fonseca, un tale che a Lisbona aveva aperto un centinaio di mescite e possedeva un grande deposito di botti nel quartiere di Marvila.
La destinazione d’uso non inganni: quel magazzino, progettato da un brillante architetto come Norte Júnior, è un gioiellino architettonico che stava cadendo a pezzi. Il regista Bille August lo trasformò in una farmacia centrale nell’intreccio del suo Treno notturno per Lisbona, uno di quei film che periodicamente, come ai tempi di Wim Wenders e Lisbon Story, fa impennare la presenza di quei turisti mediamente colti che poi si lamentano degli altri, quelli che si spostano senza aver visto nemmeno un film preparatorio. Oggi quel vecchio magazzino accoglie uno spazio chiamato 8 Marvila, dove c’è un po’ di tutto: dalla galleria d’arte al cocktail bar, dalla sala da concerto al campo da padel. Tutto molto carino, ma transitorio. Il progetto serve a rivitalizzare un quartiere in difficoltà e tra pochi anni dovrà trasformarsi in uno stabile per appartamenti di lusso. Ancora un escamotage per una città gloriosa, ma sempre sull’orlo di tanti piccoli tracolli. Troppo e troppo poco per permettere agli intellettuali di oggi di riunirsi, produrre e litigare come ai tempi della Brasileira.
Il fatto è che forse sbagliamo ormai a cercarli nei caffè, gli intellettuali. A Lisbona non è più il posto giusto dove incontrarsi. Al tempo di Amazon, i veri luoghi d’incontro sono i luoghi di crisi: le librerie indipendenti. Qualcuno la chiamerà un po’ tronfiamente «resistenza», forse è solo un’economia di sussistenza intellettuale, un modo per non arrendersi del tutto all’algoritmo che ti dice «se ti è piaciuto questo libro compra quest’altro», alimentando così i nostri soliloqui. Nelle librerie, invece, si legge a voce alta, si discute fra lettori, ci si confronta con gli autori.
A Lisbona ce ne sono diverse. La Snob, per esempio, come le buone librerie di una volta è anche una casa editrice. Ad animarla c’è Rosa Azevedo, la quale conta su una fitta rete di collaboratori e un programma vasto, ma con un occhio di riguardo per la riscoperta delle scrittrici donne. Un altro punto di ritrovo è la Poesia Incompleta, libreria dedicata esclusivamente alla poesia, che insieme ai classici ospita le piccole etichette locali, come l’editrice Flan de Tal e la sua originalissima collana ispirata alla tavola periodica di Mendeleev: per ogni elemento chimico un volumetto dal titolo omonimo e il simbolo su copertina ultrasobria. Si va dal Lantanio del grecista José Luís Costa, che ci ricorda come l’etimologia dell’elemento rimandi al vivere nascosto raccomandato da Epicuro, al Litio, che il suo autore José Carlos Barros legge ad alta voce anche in Trás-os-Montes, regione dove il litio abbonda e le popolazioni locali non ne sono felicissime, quasi a ricordarci che il vituperato overtourism è anche conseguenza della fuga dalle rivoluzioni industriali vecchio stile, fatte di attività estrattiva e manifatturiera pesante.
Uno degli ultimi arrivi in città è la libreria Casa do Comum, che in realtà è un ritorno al Bairro Alto di un progetto di José Pinho, libraio multiforme scomparso improvvisamente l’anno scorso. Sua fu l’idea di riempire di libri le chiese sconsacrate del paesino di Óbidos e farci ogni anno il festival letterario FÓLIO. Sua l’«instagrammatissima» libreria Ler Devagar («leggere con lentezza»), famosa anche per i grandi «oggetti cinematici» costruiti dall’artigiano italiano Pietro Poserpio.
A proposito di italiani, non mancano librerie che sono piccoli coaguli di identità nazionale, sia pure di nazionalismi friabili, senza orgoglio né pregiudizio. E gli italiani, che a Lisbona una chiesa ce l’hanno dal 1500 (dedicata alla Madonna di Loreto), da un paio d’anni hanno anche la libreria Piena, un tempietto in cui sono già apparsi autori di culto come Mario Desiati, Viola Ardone, Espérance Hakuzwimana, Rula Jebreal, Vanessa Roghi… spesso con l’aiuto dell’Istituto italiano di cultura.
E poi, ancora una volta, un ruolo di spicco tocca ai cugini d’oltreoceano, i brasiliani. A due passi dal giardino del Príncipe Real c’è A Travessa, succursale europea di una famosa libreria di Rio de Janeiro. Per lo scrittore Álvaro Filho, brasiliano trapiantato a Lisbona, è una presenza fondamentale nel panorama culturale della città, sebbene la zona così turistica l’abbia un po’ snaturata, spingendola a esporre troppi best seller internazionali.
Álvaro Filho le librerie le conosce bene. Per il suo ultimo libro, O Mau Selvagem (Il cattivo selvaggio), ha raccolto molte testimonianze di commessi, soprattutto suoi connazionali. Il romanzo racconta infatti la generazione dell’emigrazione brasiliana qualificata, quella in fuga da Bolsonaro, che con la laurea in psicologia in tasca finisce a vendere libri di self-help nelle grandi catene librarie. L’ambiente è quello della classe scolastica, una sorta di libro Cuore trapiantato in libreria e tutto incentrato sulla detection del nuovo Franti, il cattivo eponimo che, prima di sparire, aveva deciso di smettere di fare il commesso e l’immigrato gentile, quello per cui il cliente e il Paese ospitante hanno sempre ragione. Il libro verrà lanciato ufficialmente a settembre, ma è già sugli scaffali delle librerie indipendenti.
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