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Black Ancient Futures, orizzonti afrofuturisti

April Bey, «We Learned To Love Ourselves Until We Were Full Until We Did Not Need Yours Untill We Realized Our Own Was Enough», 2023April Bey, «We Learned To Love Ourselves Until We Were Full Until We Did Not Need Yours Untill We Realized Our Own Was Enough», 2023 – Courtesy of the artist and MAAT, Lisbon

Al Maat di Lisbona L'ultima generazione della diaspora africana in mostra per una esposizione collettiva

Pubblicato 13 giorni faEdizione del 28 settembre 2024

«Ho iniziato a seppellirmi a San Paolo. Per chi conosce bene il Brasile, sa quanto possa essere straniante per le persone che vengono dal nord-est o dal nord (sono nato a Natal). Poi ho continuato in Serbia, dove ero completamente straniero. E ho perseguito questa pratica sempre lontano da casa, perché l’essenza della mia performance è sicuramente legata alla migrazione e al fatto me ne sono andato. È una vecchia tradizione della regione da cui provengo, abbiamo proprio una parola che ci definisce e si potrebbe tradurre come ’colui che se ne va’. Essere straniero altrove è qualcosa che ti condiziona. Camminare nel mondo come straniero è sempre inquietante».

Jota Mombaça, performer e artista queer è al Maat di Lisbona (museo di arte, architettura e tecnologia) con il suo dirompente video Seu Sangue é Terra que Ninguém Pisa (Il tuo sangue è la terra che nessuno calpesta), ospite insieme ad altri dieci «colleghi» di ultima generazione della diaspora africana per la collettiva Black Ancient Futures. L’ ambizioso progetto, a cura di João Pinharanda e Camila Maissune, coltiva l’utopia di un fluire temporale alternativo, fra ricerca di radici, esili forzati, volontari «traslochi» mentali e fisici, e ardite proiezioni in spazi da esplorare.

Lungiswa Gqunta, «Sleep in Witness» (2024)

Nutrito dal pensiero della filosofa Denise Ferreira da Silva, che ai principi della dominazione coloniale – separatezza, determinismo, identità, nazione, etnicità e genere – oppone la visione di un mondo animato dal pensiero frattale e poetico dove ogni singolarità è intrecciata alle altre, Mombaça parte dalla sepoltura non tanto come qualcosa legato ai rituali della morte, ma come una sorta di abbraccio panico. «Sento che il mio corpo è connesso con la terra, siamo fatti della stessa materia quando la sabbia mi ricopre. Il mio è anche un modo per uscire dall’ossessione coloniale moderna per la soggettività e l’appartenenza», dice. Per la prima volta, la performance raccontata nel video si svolge «a casa», in posti famigliari, che risuonano nelle corde emotive dell’artista. «Considero questo film un momento di transizione. L’idea di seppellirmi in quel territorio è ovviamente legata alla nozione di diritto al ritorno, che è molto contestata di questi tempi, quando vediamo l’Europa divenire sempre più intransigente nei confronti degli immigrati. Ma questa durezza si sviluppa anche nei nostri luoghi d’origine, a causa della storica violenza coloniale. All’inizio della mia pratica, mi facevo seppellire da altre persone e c’era sempre qualcuno che leggeva un elenco di violazioni commesse dello Stato brasiliano. Poi, però, ho iniziato a concentrarmi sul respiro, sulla terra che si sollevava con la mia pancia, passando da un’attitudine centrata sulla denuncia della brutalità a un approccio diverso, che desiderava ri-figurare il modo in cui ci relazioniamo alle cose. Le sculture che produco (una seconda opera di Mombaça è posizionata nel giardino del Maat, ndr), per esempio, sono realizzate con i materiali che ho prima lasciato ’affondare’ in Portogallo, nel fiume Tago. È interessante: qui mi seppellisco e lì lascio che il tessuto finisca sott’acqua. In entrambi i casi, sto cercando di sondare le profondità del pianeta, a volte misurandole con l’ingombro del mio stesso corpo».

Questo procedere sotto superficie, su più livelli, è anche il leit motiv che ha guidato il team curatoriale nella costruzione di una mostra che si annunciava molto difficile nel suo complesso. Dirimente per la sua riuscita era, infatti, evitare gli stereotipi e tessere una nuova rete di rimandi fra gli artisti, nonostante le tecniche, le biografie, il passato e il futuro da imbastire siano differenti e, non di rado, distanti concettualmente.

Installazione di Evan Ifekoya

Come afferma la curatrice Camila Maissune, l’intenzione di Black Ancient Futures non è omologare le esperienze creative ed esistenziali pur nella realtà diasporica che tutti accomuna, ma «creare un ponte tra conoscenze ancestrali, spiritualità, mitologie ed ecologie che potremmo definire come pre-coloniali, per poi attivare un collegamento anche con la fantascienza e l’afrofuturismo. Il perno su cui s’innesta la mostra richiede un cambio di passo: non si vuole pensare all’Africa in termini di ciò che manca, ma restituire un’idea di abbondanza, di possibile guarigione, senza dimenticare la ferita storica, che sarà sempre lì. Questi artisti stanno cercando di immaginare nuove narrazioni riguardanti l’arte africana e contemporanea».

L’oceano, su cui Lisbona si apre a ovest, è una presenza significativa per diversi degli artisti invitati al Maat. Torna nelle opere e nelle loro parole, come un dispositivo sentimentale generatore di storie. È così per The Welcome, l’installazione che apre il percorso espositivo dell’artista Evan Ifekoya (Nigeria, vive a Londra), una sorta di fontana sacra ottagonale, «piazza della comunità» e luogo di purificazione con l’acqua. «L’oceano è un luogo di rinnovamento e trasformazione. Attingo alla saggezza dei miei antenati, il popolo Yoruba, alla cosmologia che ho ereditato. Mi ispiro a metodi comunicativi i quali, per la maggior parte, non sono mai stati scritti ma tramandati attraverso il corpo».

All’oceano fa riferimento anche Jeannette Ehlers, danese con origini caraibiche che affronta il luogo in cui vive e quello da cui proviene ricreando una storiografia (intima e universale) sulla tratta degli schiavi in cui il mare ha svolto un ruolo di protagonismo assoluto. La sua azione We’re magic We’re Real dialoga con la distesa d’acqua di Lisbona: lunghe catene o corde per marinai intrecciate con capelli sono lo strumento principale, il «filo» tra passato presente e futuro che lega insieme tutti i movimenti di tre performer.

«La storia coloniale – afferma Ehlers – è nei nostri corpi, pervade le nostre relazioni con gli altri e con l’oceano stesso che per me, discendente di antenati caraibici ha una importanza enorme, parte da qui la comprensione della mia presenza nel mondo e di come tutto è strutturato. Nella performance si recita un mantra in diverse lingue: ’Finché il leone non avrà il suo storico, il cacciatore sarà sempre un eroe’. È un proverbio africano che ho scoperto per la prima volta durante un mio viaggio in Ghana, nel 2008. Era scritto con un graffito sulle rovine di una ex fortezza danese utilizzata per il mercato degli schiavi ad Accra».

L’oceano riappare infine come profezia che crea ponti l varie stagioni dell’esistenza nella grande installazione Sleep Witness della sudafricana Lungiswa Gqunta, trasformandosi in una «macchina per sogni», congegno per esperienze multisensoriali. A terra, una vasta mappa desertica in argilla segna un confine mobile, terrestre e cosmico (sfere celesti in vetro lo costellano), mentre l’orizzonte è imbrigliato in montagne disegnate da fili spinati dietro le quali si «ergono» foto di famiglia.

«Il mio lavoro si fonda su conoscenze ancestrali a cui io arrivo attraverso i sogni e conversazioni con guide e membri della famiglia. Il mondo onirico è un territorio seminato di informazioni, è una piattaforma per l’ apprendimento: produce sapere non meno di qualsiasi altro metodo dell’Europa occidentale. Sleep Witness nasce da un sogno in cui ho incontrato alcuni miei antenati e famigliari vivi, mentre entravo nell’oceano. Era un’onda immobile, ma si poteva camminare attraverso di essa e la sensazione era di passare tra le montagne più che dentro l’acqua. Mi ha permesso di occupare molti ’regni’, di non essere sola. Nell’immagine si vede mia madre. Lei e i suoi amici, tutti giovani in foto, s i trovano a New Brighton Beach, vicino Port Elizabeth dove siamo cresciuti e viviamo ancora. La foto è stata scattata negli anni ’70, in pieno apartheid quando sulle spiagge vigeva la segregazione, ma quello scatto insiste sulla gioia, sul rifiuto della propria invisibilità. E poi c’è l’oceano, la ’grande casa’. È una casa dove facciamo offerte e parliamo con i nostri antenati. È un’immagine che risuona in me, molto potente e con più significati».

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