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Evelyn Waugh, nazionalismi, dramma insensato

Evelyn Waugh, nazionalismi,  dramma insensatoEvelyn Waugh negli anni cinquanta

Scrittori inglese Il resoconto dell’itinerario, tutto interno all’impero, compiuto nel 1959 verso il Tanganica e la Rodhesia: assenti le avventure, prevale l’ironia di «Un turista in Africa», da Adelphi

Pubblicato 3 giorni faEdizione del 10 novembre 2024

Nella letteratura inglese e francese novecentesca il racconto del viaggio in Africa torna in diverse fasi e in molte vesti, come un tema chiave. Il conradiano Cuore di tenebra costruisce il paradigma del viaggio verso le profondità selvagge del «continente nero» come metafora dello scavo nella dimensione dell’inconscio, insieme orrifica e affascinante.  L’Africa fantasma di Leiris contiene tutta l’attrazione modernista per l’autenticità dell’arte «primitiva», e al tempo stesso il senso di colpa coloniale e la messa in discussione di una soggettività etnografica più predatrice che rivolta a comprendere, che si accosta all’altro sulla base di una costitutiva violenza epistemologica. La narrativa di argomento antropologico eredita questi soggetti e queste scritture, cercando di portarli sul piano più distaccato di una rappresentazione scientifica: senza tuttavia potersi o volersi liberare di risonanze letterarie e poetiche. Fin dai primi decenni del secolo, si apre uno spazio discorsivo fra romanzo, antropologia e giornalismo in cui molte voci si fanno notare. Fra le più raffinate e letterariamente impegnate, quella di Evelyn Waugh, lo scrittore inglese che a partire dalla fine degli anni Venti  coltiva parallelamente la narrativa e i viaggi, producendo oltre a romanzi di successo anche un’ampia serie di travelogues, l’ultimo dei quali, edito nel 1960, è Un turista in Africa, proposto da Adelphi (nella traduzione di Stefano Manferlotti, pp. 196, € 14,00).

È il resoconto sotto forma di diario di un viaggio compiuto nei primi mesi del 1959, per lo più in nave, verso il Tanganica e la Rodhesia – come ancora si chiamavano gli attuali Tanzania e Zimbabwe – con tappe fra l’altro a Genova, Porto Said, Mombasa, Zanzibar, Salisbury.  Itinerario tutto interno, come si vede, all’impero coloniale inglese. Waugh insiste nel titolo sulla parola «turista» per differenziare il libro dai suoi precedenti resoconti, che erano piuttosto quelli di un «viaggiatore» e giornalista. Negli anni Trenta aveva pubblicato fra l’altro Labels (1930, tradotto da Adelphi nel 2006: Etichette), Remote People (1931), e Waugh in Abissinia (1936, tradotto da Adelphi nel 2022: In Abissinia), tutti centrati su esperienze africane, in parte condotte come inviato di quotidiani come il Times e il Daily Mail. Dominava questi lavori un certo senso di avventura e di scoperta di realtà esotiche, anche se rispetto ai modelli di Conrad e Leiris era del tutto scomparso il fascino dell’autenticità «primitiva»: al suo posto emergeva in ogni riga quell’ironia scettica così tipica di Waugh, che lo portava a sottolineare da un lato gli aspetti più squallidi delle città coloniali, dall’altro le situazioni grottesche e talvolta surreali prodotte dalle ibridazioni culturali.  In Un turista in Africa non solo non c’è ricerca di autenticità, ma neppure aspetti avventurosi: l’autore si trova in luoghi già noti, si sposta con agio e in ogni sua tappa viene ospitato e accompagnato da persone che conosce o da funzionari che si prendono cura di lui, un visitatore così illustre. Resta invece il gusto per la descrizione di situazioni e personaggi che si trovano all’incrocio di mondi culturali diversi: dai lavoratori cosmopoliti che incontra sulla nave, agli albergatori tedeschi in Tanganica, ai missionari che fondano scuole d’arte per i nativi, ai masai che vanno ai raduni di boy-scout a Londra.

Figure del margine che stimolano il sottile sarcasmo di Waugh ma, evidentemente, anche la sua ammirazione: sono per lui la prova vivente dell’insensatezza di quei nazionalismi che credono nelle culture pure e che hanno appena portato l’Europa nella catastrofe della guerra.  È questo l’unico giudizio politico netto espresso da Waugh, che per altri versi non perde occasione di punzecchiare in ugual misura sia le visioni laburiste che quelle conservatrici. Ne conseguono giudizi durissimi sull’apartheid rodhesiano, che l’autore attribuisce tutto all’influenza della cultura afrikaan: è frutto di una «logica malata», di «un’infezione di follia razziale che monta da sud», afferma, e sarebbe apparso incomprensibile e insultante agli occhi di tutti i primi avventurieri, che pur combattendo gli indigeni, imbrogliandoli e depredandoli, si erano in qualche modo amalgamati con loro. Il che porta all’aspetto forse più interessante del libro: Waugh percorre da Nord a Sud l’impero britannico all’immediata vigilia della sua fine. È una fine considerata inevitabile, e – sembra – neppure particolarmente temuta dagli inglesi e dagli altri europei. Il clima non è certo quello dell’Algeria. Sembra che molti dei funzionari che Waugh incontra siano progressisti desiderosi di creare le condizioni per l’indipendenza degli stati africani. Ma il nostro cinico autore non chiude affatto con toni di ottimismo:   lo preoccupa il fatto che il superamento del colonialismo avvenga sulla base di politiche nazionaliste, e senza che si sia consolidata una classe dirigente nativa. Fa esprimere questo punto di vista a un vecchio prete italiano che incontra nella missione di Mbeya in Tanganica: «l’errore è stato introdurre la ‘africanizzazione’ attraverso la politica e non attraverso la pubblica amministrazione».

Da parte sua, il cattolico Waugh  avanza un sinistro paragone con la liberazione dell’America Latina, compiuta da «rivoluzionari locali che parlavano il linguaggio già antiquato dell’Illuminismo», e a cui «è seguito un secolo di caos e tirannia che ancora non si è mitigato in tutto il continente». Asserzioni che suonano – oggi – paternalistiche e pregiudiziali, ma forse non del tutto infondate: servono perlomeno a ricordarci che il colonialismo e il suo superamento sono stati fenomeni complessi e a molte dimensioni, pieni di zone grigie, e non riducibili allo scontro tra il Male e il Bene che si tende troppo spesso a rappresentare.

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