Che fine farà al Qaeda? Con la morte di Ayman al-Zawahiri, ucciso a 71 anni dopo più di 50 anni di militanza nell’islamismo radicale e poi armato, tornano gli interrogativi sul futuro di al Qaeda, l’organizzazione nata nel 1987, come campo di addestramento militare, a causa della crescente insofferenza di una parte dei militanti che gravitavano intorno al Maktab al-Khidamat, l’«ufficio servizi» fondato nel 1984 a Peshawar, in Pakistan, dal clerico palestinese Abdallah Azzam e da Osama Bin Laden per favorire il jihad anti-sovietico nel confinante Afghanistan.

NATA COME EVOLUZIONE della logistica del campo di addestramento al-Masada, guardata con sospetto e preoccupazione dallo stesso Abdallah Azzam, pragmatico promotore della «carovana del jihad» e convinto, al contrario del militarista Osama bin Laden, che si potesse contribuire al jihad afghano anche con la logistica e con l’assistenza umanitaria, non necessariamente con il combattimento, al Qaeda si sarebbe trasformata a tal punto da dar luogo, in particolare dopo gli attentati alle Torri gemelle dell’11 settembre 2001, a un grande equivoco: l’idea che il jihadismo sia le organizzazioni jihadiste, non invece un movimento sociale retto da un’ideologia. E che dunque basti combattere militarmente le singole organizzazioni, polverizzarne i capi con attacchi mirati ed esecuzioni a distanza, per eliminare il fenomeno.

La redazione consiglia:
Al-Zawahiri ucciso dalla Cia a Kabul, vent’anni dopo

Che l’equivalenza dia origine a un equivoco lo dimostra la storia di al Qaeda e dello stesso Osama bin Laden, che in Afghanistan torna alla metà degli anni Novanta, quando perde la protezione del governo sudanese. Con la conquista di Jalalabad, spiegano tra gli altri gli autori del libro The Arab at Wars (Hurst Publisher), i Talebani ereditano un ospite problematico, con cui i rapporti non sono facili.

Nel novembre 1996 «un elicottero è in attesa all’aeroporto di Jalalabad», capoluogo della provincia orientale di Nangarhar, verso il confine con il Pakistan. Osama bin Laden è stato convocato da mullah Omar, nominato pochi mesi prima Amir ul-muminim, la guida dei fedeli. Omar governa il Paese da Kandahar.

LO SCEICCO SAUDITA è convinto che i Talebani vogliano giustiziarlo. Ha contravvenuto ai loro ordini, proclamando nell’agosto precedente la sua «Dichiarazione di guerra contro gli Stati uniti». Ma Osama Bin Laden esce indenne dall’incontro con mullah Omar, dopo una reprimenda verbale.
Cinque anni dopo, arrivano gli attentati dell’11 settembre, pianificati in Afghanistan, di cui i Talebani sono ignari. Quindici anni dopo, nella notte tra il primo e il 2 maggio 2011, Bin Laden viene ucciso con un raid dei Navy Seals nel suo compound di Abbottabad, cuore dell’establishment militare pachistano.

RIVOLGENDOSI al popolo americano, l’allora presidente Barack Obama, a cui due anni prima era stato assegnato il premio Nobel per la pace per «gli straordinari sforzi fatti per rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli», dichiara con orgoglio e sguardo fermo che «giustizia è fatta», come fatto due giorni fa da Joe Biden. Si volta pagina, pensano in molti. E molti altri commentatori ritengono l’organizzazione spacciata. Ma l’operazione delle forze speciali non mette fine alla storia di al Qaeda, che Osama binn Laden, prima di morire, aveva già indirizzato lungo nuove coordinate strategiche.

La redazione consiglia:
Il più grande successo di Joe Biden 24 ore dopo è già (quasi) dimenticato

Al suo successore, Ayman al-Zawahiri, il compito di realizzarle, a dispetto del contesto. Segnato da due grandi sfide, oltre alla morte del «simbolo-Bin Laden»: da una parte le primavere arabe, che contraddicono la propaganda jihadista sull’impostura delle procedure democratiche e sulla violenza come unico strumento per cambiare le cose in Medio Oriente e Nord Africa.

DALL’ALTRA, la sfida dei più giovani e impazienti militanti come Abu Bakr al-Baghdadi, che nel 2014 compie il «parricidio» e inizia la contesa per l’egemonia della galassia jihadista. Lo Stato islamico alza il tiro, mostra i muscoli, avanza, conquista territori, mette bandierine, fa propaganda e uccisioni settarie e dichiara infedele chiunque non condivida il proprio esclusivismo censorio e brutale. Al Qaeda, guidata da Ayman al-Zawahiri, va in direzione opposta: quella dell’occultamento, del pragmatismo, del tentativo di radicarsi nei territori e dentro i conflitti esistenti, dando sostegno materiale e poi intestandosi battaglie locali, con bassa esposizione mediatica, tessitura dei rapporti sociali, per farsi movimento popolare, non più gruppo di avanguardia.

La redazione consiglia:
Il medico stratega, il capo carismatico e il jihadismo globale

La strategia porta frutti, come dimostra, tra le altre, l’espansione di al Qaeda nel Maghreb islamico e dei suoi affiliati fino al Burkina Faso, alla Costa d’Avorio, a Ghana, Benin, Togo. Il rischio, quando al-Zawahiri ha preso le redini nel 2011 così come oggi, è sempre lo stesso: un’eccessiva decentralizzazione.

ORA CHE È MORTO l’egiziano dalla barba lunga e dai lunghi sermoni, a decidere la strategia del gruppo sarà il suo successore: forse Sayf al-Adl, forse Abd Al-Rahman Al-Maghribi. Diverse fonti li danno entrambi residenti in Iran: non proprio un buon posto per accreditarsi come leader di al Qaeda.