Da balcone a balcone: su quello della Casa bianca, a Washington, il presidente degli Stati uniti Joe Biden, ha annunciato la morte di Ayman al-Zawahiri, il numero uno di al-Qaeda. Ucciso, secondo le prime ricostruzioni, da due missili Hellfire sparati da un drone della Cia intorno alle 4 del mattino di domenica 31 luglio (ora italiana) mentre era su un altro balcone: quello di un edificio di Sherpur, quartiere residenziale e centrale di Kabul, il più controllato dai Talebani che dallo scorso agosto governano l’Afghanistan.

Per Joe Biden, il balcone della Casa bianca è un balcone di rivendicazioni: con il classico linguaggio da comandante in capo delle forze armate, Biden ha dichiarato «giustizia è fatta». Per lui si tratta di una vittoria: l’eliminazione di al-Zawahiri gli permette di respirare un po’, di recuperare qualche sostegno elettorale. Per i cittadini degli Stati uniti, i terroristi possono essere polverizzati in un Paese straniero, senza processi, con «esecuzioni a distanza», per riprendere il titolo del libro dello scrittore statunitense William Langewiesche tradotto da Adelphi.

PER L’AMMINISTRAZIONE Biden, l’esecuzione di al-Zawahiri è inoltre la prova che si possono condurre operazioni di contro-terrorismo anche senza avere una presenza di uomini sul campo. Una delle tesi su cui più spesso Biden è dovuto tornare, dopo che i Repubblicani gli hanno imputato le conseguenze del ritiro dall’Afghanistan, già avviato da Donald Trump e da lui avallato.

E dopo le drammatiche scene dell’agosto 2021, quando andava in scena la debacle degli Stati uniti, alle prese con un ritiro male orchestrato, concluso con un altro attacco aereo. Il 29 agosto 2021 un drone colpiva a Kabul un’auto che secondo l’intelligence statunitense poneva un pericolo immediato per le truppe americane di stanza all’aeroporto. A rimanere uccisi furono però 10 civili afghani innocenti, tra cui sette bambini.

QUASI UN ANNO DOPO, il 31 luglio 2022, i droni americani tornano a volare su Kabul e colpiscono Ayman al-Zawahiri. Su un balcone, pare. Un balcone che per i Talebani è fonte di imbarazzo. Sicuramente di divisioni e sospetti. La presenza del capo di al-Qaeda nel cuore di Kabul, in un’area che è simbolo della speculazione edilizia e finanziaria favorita dalla presenza ventennale degli stranieri e che da un anno ospita i leader del movimento dei Talebani, è una grana nei già difficili rapporti tra Kabul e Washington. Che non si sono risparmiati bordate ufficiali.

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Per il Dipartimento di Stato Usa, «ospitando e dando rifugio a Kabul al leader di al-Qaeda, i Talebani hanno platealmente violato l’accordo di Doha e le ripetute rassicurazioni al mondo che non avrebbero permesso che il territorio afghano venisse usato dai terroristi per minacciare la sicurezza di altri Paesi». Un tradimento che compromette ulteriormente la normalizzazione dei rapporti con la comunità internazionale.

PER I TALEBANI, è vero il contrario: l’uso di droni sul territorio afghano viola la sovranità territoriale e, dunque, anche gli accordi di Doha del febbraio 2020. Si tratta del patto siglato nella capitale del Qatar tra mullah Baradar, oggi vice primo ministro dell’Emirato, e l’inviato speciale del presidente Donald Trump, Zalmay Khalilzad. Presentato come un accordo di pace, quel patto – che escludeva il governo di Kabul poi collassato – concedeva molto ai Talebani, a partire dal ritiro delle truppe straniere, in cambio appunto del loro impegno nell’antiterrorismo.

Un impegno criticato da Washington come inconsistente, anche alla luce del rapporto del giugno scorso dello United Nations’ Analytical Support and Sanctions Monitoring Team. Dove si diceva che al-Qaeda non sembrava porre «un immediato pericolo internazionale dal suo santuario in Afghanistan a causa della mancanza di capacità operative esterne» e della volontà di non creare imbarazzo e difficoltà ai Talebani al potere, con i quali comunque i rapporti erano buoni.

Tanto che il leader di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, ne aveva approfittato per intensificare i messaggi destinati alla propaganda. E, a quanto pare, per trasferirsi con la famiglia a Sherpur, nel cuore di Kabul, città la cui sicurezza è per buona parte in mano agli Haqqani, la famiglia/rete di jihadisti che, dopo decenni di servizio per la causa del jihad internazionale nelle aree di confine tra Afghanistan e Pakistan, oggi è arrivata al ministero degli Interni di Kabul, diretto da Sirajuddin Haqqani.

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OLTRE CHE FONTE di imbarazzo per i rapporti con Washington, l’uccisione di al-Zawahiri è anche fonte di sospetti all’interno del movimento dei Talebani e tra i Talebani e al-Qaeda. Già divisi sul «cosa fare» dei gruppi jihadisti regionali presenti sul territorio afghano, i Talebani ora si troveranno a dover fare i conti con sospetti e accuse reciproche.

A doversi difendere sarà proprio quell’area più «pragmatica», incarnata tra gli altri da mullah Baradar o dal ministro degli esteri Amir Khan Muttaqi, che cerca di ristabilire i rapporti con la comunità internazionale. E che verrà accusata di aver «venduto» al-Zawahiri agli americani. Così penseranno le componenti più oltranziste dei Talebani.

Così penserà anche una parte dei qaedisti. Fuori e dentro l’Afghanistan. Tanto più dopo aver sentito il «discorso dal balcone» del presidente Biden, in cui non vengono mai menzionati o accusati i Talebani.