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Al Museo Thyssen-Bornemisza, la costruzione razziale dell’«altro da sé»

Agostino Brunias, «Il mercato del lino a Santo Domingo», 1770 ca.Agostino Brunias, «Il mercato del lino a Santo Domingo», 1770 ca.

In mostra a Madrid Attraverso un percorso di 75 opere, «La memoria coloniale nelle collezioni Thyssen Bornemisza», fino al 20 ottobre, ha l’obiettivo di «risignificare il passato coloniale da una prospettiva non eurocentrica»

Pubblicato circa un'ora faEdizione del 28 settembre 2024

I musei d’arte sono quei templi laici dove abbiamo scelto di rinchiudere come osserviamo il mondo, la società e la nostra stessa esistenza attraverso l’espressione artistica e culturale, e dove scopriamo come siamo cambiati nel tempo. Sono, allo stesso tempo, vetrine e gabbie: qui il nostro sguardo sulla natura e sul cosmo viene cristallizzato e sacralizzato.

Ma sono anche l’espressione massima della nostra weltanschauung, e in particolare dello sguardo europeo sul resto del globo terrestre. Un prisma attraverso il quale le classi sociali dominanti che hanno costruito la propria ricchezza – questo sì che non è mai mutato nel tempo – sulle spalle di quelle subalterne mostrano l’universo in cui loro prosperano.

Il Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid ha deciso di lanciare un’operazione coraggiosa e dirompente con parte della propria raccolta e un nutrito tema curatoriale.

L’esposizione La memoria coloniale nelle collezioni Thyssen Bornemisza (fino al 20 ottobre) ha l’obiettivo di «risignificare il passato coloniale da una prospettiva non eurocentrica». Attraverso un percorso di 75 opere, «vengono analizzate alcune conseguenze del processo coloniale iniziato nel secolo XVI e la sua ripercussione sul mondo attuale», si trova scritto nella guida.

All’entrata, campeggia l’immagine di un quadro emblematico di Frans Hals, Gruppo familiare davanti a un paesaggio (1645-1658). Assieme alla famiglia olandese di Jacob Ruychaver, direttore del castello di Elmina, in Ghana – da cui partivano le persone schiavizzate verso la rotta americana – è ritratto un giovane servo africano. Che guarda dritto negli occhi lo spettatore: ci siamo mai accorti che c’era anche lui in quel quadro? «Il sistema coloniale è alla radice della modernità occidentale, e la sua eredità continua a influenzare le relazioni umane e geopolitiche in tutto il mondo. L’Europa è avanzata nella conquista delle libertà imponendo un regime estrattivista e un dominio fisico nei suoi territori in tutto il pianeta», si legge. 58 opere del Thyssen dialogano con 17 lavori di artisti contemporanei non europei che sfidano, con occhi della modernità, l’establishment incarnato dai dipinti storici.

Ogni sala tocca un tema. La prima è dedicata all’estrazione delle risorse naturali delle terre colonizzate, allo sfruttamento dell’essere umano attraverso il lavoro e all’appropriazione delle idee ed espressioni culturali, in correnti artistiche come il primitivismo. Lo vediamo per esempio in opere come nature morte dove appaiono oggetti all’epoca molto quotati sottratti a culture lontane.

Si continua l’itinerario con una sala dedicata alla costruzione razziale dell’altro, donde si palesa attraverso i ritratti degli artisti europei che lo sguardo sulle altre etnie è sempre implicitamente di disprezzo e di superiorità. Emblematico il quadro di Giuseppe Maria Crespi Ritratto del conte Fulvio Grati, in cui il conte tiene incatenato un africano, molto più piccolo (a significare una chiara gerarchia) che gli porge delle partiture. Naturalmente, una sala è dedicata allo schiavismo e alla dominazione coloniale, che cambia la sua natura storica. Nell’antichità la schiavitù era temporale e multietnica.

A partire del XVI secolo, diventa una condizione naturale vitalizia, e soprattutto per persone di origine africana. Si stima che siano state 12,5 milioni le persone imbarcate a forza verso l’America. In molti paesi europei, la schiavitù era vietata, ma nelle colonie era tutta un’altra storia. È grazie allo schiavismo che molte famiglie proprietarie di terre si arricchirono tanto da mantenere fino ai giorni nostri il privilegio e uno stato sociale più elevato, come quello esemplificato dal bellissimo quadro del dandy David Lyon, di Thomas Lawrence (1825), ricco possidente di terre giamaicane, tronfio, facoltoso e sicuro nei suoi abiti impeccabili e sporchi di invisibile sangue.

E poi c’è la rappresentazione bucolica delle terre coloniali, come arcadie felici in cui si occulta la realtà crudele della violenza esercitata sulle popolazioni native. Impressiona per esempio il quadro delle cascate di Sant’Antonio, del fiume Mississippi, oggi nel cuore dell’attuale Minneapolis: il protagonista è il missionario e francescano belga Louis Hennepin, che appare in primo piano, relegando a un secondo piano le persone native del luogo.

Evidentemente, il corpo e la sessualità occupano anch’essi uno spazio di primo piano in questa rivisitazione culturale: solo l’uomo europeo era dotato di civiltà e raziocinio. Gli indigeni, gli africani, tutti esseri condizionati dal proprio corpo, dall’erotismo eccessivo (nel caso degli uomini) e a disposizione degli europei, nel caso delle donne. Ritratte sempre in sensuali pose (vedi i dipinti di Paul Gauguin) che finiscono per legittimare una possibile e sistematica violenza. E dove gli inaccessibili harem (su cui i pittori orientali fantasticavano) si trasformano in un’opera moderna della turca Inci Eviner (Harem) in luoghi di resistenza e alienazione femminile.

E infine i diritti civili, la resistenza e le fughe: i movimenti di emancipazione delle persone razzializzate e colonizzate che affrontano la propria identità contraddittoria di resistenza, attraverso movimenti collettivi o personali.

La mostra si chiude emblematicamente con un’opera dedicata all’occupazione e colonizzazione della Palestina. Lo sguardo di superiorità coloniale che attraversa anche il presente. Una rassegna che, con un linguaggio chiaro, invoca, con quel suo smontare e ricostruire le opere, una nuova narrativa, capovolgendo il punto di vista europeo sul mondo.

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