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Aramburu, dalla ricostruzione dei fatti, un graffio sulla coscienza

Aramburu, dalla ricostruzione dei fatti, un graffio sulla coscienzaFrancisco Bores, «Natura morta», 1926

Scrittori spagnoli 23 ottobre 1980: cinquanta allievi della scuola di un paese basco, e tre adulti muoiono dopo una fuga di gas: «Il bambino», l’ultimo romanzo dell’autore di «Patria», da Guanda

Pubblicato 5 giorni faEdizione del 22 settembre 2024

Come si può pretendere fedeltà ai fatti reali quando chi li racconta lo fa con gli strumenti della finzione? Si può, muniti soltanto di tali strumenti, raccontare efficacemente un lutto sconvolgente come la morte di un figlio? Sono domande sollecitate dal testo stesso, mentre ci si addentra nella lettura in quello che è l’ultimo romanzo di Fernando Aramburu, Il bambino (traduzione di Bruno Arpaia, Guanda, pp. 272, € 19,00) già autore di Patria (2017) dove interrogava il lutto collettivo provocato dall’Eta con i suoi attentati e le centinaia di vittime innocenti degli anni settanta e ottanta in Spagna, raccogliendo diverse prospettive a partire dalla ferita che il terrorismo aprì nel tessuto di una intera nazione. Qui, invece, Aramburu si concentra su una tragedia che non ha movente politico: la morte di cinquanta bambini e tre adulti in una scuola di Ortuella, paese di novemila abitanti nella provincia basca, causata da un’esplosione dovuta a una fuga di gas.

È il 23 ottobre del 1980: Franco è morto da cinque anni, la Spagna si avvia verso la Transición con il varo di una Costituzione democratica e il via a elezioni libere; l’Eta ancora non ha organizzato i suoi attentati più macabri e la notizia della morte di tanti bambini ha una risonanza mediatica enorme in tutto il paese. Sin dal prologo, l’attenzione del lettore viene richiamata sul «come» verranno raccontati i fatti: una voce autoriale lo informa (anzi, lo mette in guardia) circa la struttura peculiare di quanto seguirà: «I lettori di questo libro troveranno una decina di passaggi in cui il romanzo, se non ho capito male, pretende di commentare se stesso. Chi si esprime lì in prima persona è proprio il testo, consapevole, a quanto esso stesso afferma, di consistere in un insieme di parole che trasmettono una storia». A partire da questo appunto iniziale Aramburu esibisce una non troppo nascosta e spesso autoironica eco cervantina, che accompagna tutto il libro: come nel Chisciotte, anche nel Bambino seguirà un testo che prende la parola per commentare le scelte (etiche, estetiche, stilistiche) dell’autore. Mentre Aramburu ci trascina all’interno dei meccanismi di costruzione del racconto, la mise en abyme non intralcia la narrazione né converte le dieci parti in cui il testo stesso «prende la parola» in un mero gioco metaletterario, contribuendo piuttosto a mantenere alta la tensione: il lettore è spinto a sapere cosa succederà nelle pagine seguenti e, al tempo stesso, desidera avere prova del fatto che quanto il testo dice nel commento alle scelte dell’autore corrisponde a ciò che poi effettivamente seguirà (fino ad arrivare al sarcasmo con cui il testo si ribella all’autore, dicendosi incapace di scriversi da solo e di correggersi, «il che mi lascia indifeso rispetto agli errori e alla mancanza di talento di chi mi compone»).

La scrittura di Aramburu penetra con agilità la mente e gli stati d’animo delle vittime, soprattutto di Nicasio (il nonno), Mariaje (la madre) e José Miguel (il padre) di Nuco, uno dei bambini morti nell’incidente. Ognuno di loro dovrà fare i conti con quel mistero chiamato «elaborazione del lutto». Ognuno di loro tenterà di affrontare il vuoto che lascia il figlio perduto adottando soluzioni sia, com’è ovvio, parziali, sia provvisorie: Nicasio continua a parlare al nipote appostandosi settimanalmente davanti alla sua lapide, per poi finire col ricostruire la sua cameretta in casa propria; José Miguel tenta di mostrarsi forte davanti alla moglie, nonostante la crisi economica la cui ombra minacciosa si allunga sulla fabbrica in cui lavora; Mariaje, il personaggio più interessante, cerca di restare di nuovo incinta con altri uomini, svelando a se stessa via via le zone oscure della propria coscienza di giovane donna che intende tornare a vivere sfidando, se necessario,  i tabù e i vincoli morali precipitati su una madre che ha perso il figlio.

Sono molti i brani in cui Aramburu riesce a coinvolgere emotivamente il lettore nella ricostruzione, sempre parziale, dei fatti: dalla scena in cui Mariaje viene chiamato a identificare il cadavere (e sarà lei, la madre, a risistemare i calzini e a togliere la polvere dagli indumenti del bambino, mentre José Miguel resta a debita e tremante distanza), a quella in cui il narratore commenta – in una sorta di ecfrasi – una delle prime foto che appare sul giornale locale, in bianco e nero così da attenuare l’impatto visivo del sangue sui corpi dei bambini, e il cui commento sottolinea la rabbia dei  genitori nel vedere i corpi dei propri figli esposti a una curiosità morbosa (la foto ricorda l’unica che compare all’interno di Tomás Nevinson, l’ultimo romanzo di Javier Marías, in cui pure si parla degli attentati dell’Eta e in cui pure appare una vittima minorenne in braccio a un agente della guardia civil).

A Mariaje è infine affidata la domanda cruciale: «a cosa cavolo serve il dolore». E se è vero che, come riconosce il testo nella sua veste di personaggio, non è stato «ancora inventato un setaccio di testi in grado di separare ciò che è inventato dall’autore, spesso in maniera involontaria, dalla testimonianza veridica», è anche vero che la ricostruzione letterariamente plausibile degli eventi del passato serve a rinvenirvi un senso, e a «lasciare un graffio in questa o in quella coscienza».

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