Sei mesi di stato di emergenza su tutto il territorio nazionale «in relazione al forte incremento dei flussi migratori» e alle previsioni sui prossimi mesi. Lo ha deliberato martedì il consiglio dei ministri, stanziando cinque milioni di euro. Tre gli obiettivi: decongestionare l’hotspot di Lampedusa; aumentare i Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr); realizzare nuove strutture di accoglienza. Che l’aumento dei Cpr moltiplichi le espulsioni, come auspica il governo, è tutto da vedere, ma concentriamoci sul terzo punto.

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Secondo il Viminale al 31 marzo scorso nei centri erano ospitati 111.928 migranti. Un aumento consistente rispetto ai 79.685 dello stesso giorno nel 2022. Per capire perché questi numeri complichino la gestione del fenomeno, però, bisogna fare un passo indietro. Al 2018. È l’anno del primo decreto Salvini che cancella la protezione umanitaria e restringe l’accesso ai progetti ex Sprar. In quel momento, secondo i dati raccolti da ActionAid, i posti disponibili nei diversi tipi di centri erano 169.471 con 131.425 presenze giornaliere effettive. Tra il 2018 e il 2021 – mostra Il vuoto dell’accoglienza, l’ultimo report che la Ong ha curato con OpenPolis – i centri sono diminuiti da 12.275 a 8.699 e i posti disponibili scesi a 97.670. Quelli liberi rispetto alla capienza totale, comunque, sono rimasti una costante: tra il 20,71% di due anni fa e il 27,23% del 2019. Le presenze, come abbiamo visto, sono aumentate nel periodo successivo ma non sono disponibili dati sull’attuale capacità del sistema e sulla percentuale di probabili posti vuoti.

Fonte: Il vuoto dell’accoglienza (ActionAid, Open Polis)

Se è chiaro il punto di inizio dello smantellamento dei centri di accoglienza è altrettanto evidente come gli anni successivi, con i governi Conte 2 e Draghi, siano stati un’occasione mancata per riformare il sistema. Nonostante le minori presenze di migranti, la grande disponibilità di posti liberi e la riforma Lamorgese del 2020, infatti, si è continuato a insistere su un approccio emergenziale a un fenomeno ordinario. I Centri di accoglienza straordinaria (Cas) nel 2021 ospitavano il 60,9% delle persone: 63mila, quasi il doppio delle 34mila del Sai. Cioè il sistema ordinario che dal 2018 ha perso circa mille posti. Tra i Cas, poi, sono stati penalizzati soprattutto quelli di piccole dimensioni (-24 mila posti in tre anni). Si è dunque determinata una contrazione quantitativa del sistema e un peggioramento qualitativo. Che dipende anche dal contenimento dei costi giornalieri pro capite imposto da Salvini e dalla conseguente riduzione dei servizi erogati per favorire l’integrazione dei nuovi arrivati.

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«La dichiarazione dello stato di emergenza consente la deroga alle procedure ordinarie. Leggendo il comunicato del governo possiamo supporre che nuovi centri straordinari nasceranno più rapidamente, ma così diminuiranno i controlli sull’ente affidatario mettendo a rischio il rispetto dei diritti delle persone accolte», afferma Fabrizio Coresi, ricercatore di ActionAid. Per capire qual è l’effetto potenziale delle procedure semplificate si può guardare a quanto accaduto tra febbraio 2011 e febbraio 2013 con l’Emergenza Nordafrica dichiarata dall’allora governo Berlusconi, e prorogata da Monti, per far fronte agli sbarchi derivati dalle primavere arabe.

Fonte: Il vuoto dell’accoglienza (ActionAid, Open Polis)

Nel 2011 si registrarono 62.692 arrivi via mare, fino ad allora il numero più alto (ma l’anno seguente furono solo 13.267). «In quell’occasione invece di rafforzare lo Sprar è stato predisposto un sistema parallelo organizzato dalla protezione civile – spiega Anna Brambilla, avvocata dell’Asgi – Sono nati centri di dubbia natura giuridica che hanno offerto condizioni molto diverse e dunque discriminanti». Perché? «Per l’impreparazione degli addetti all’accoglienza e la diffusa carenza di servizi, nonostante i costi più alti rispetto al sistema ordinario». Negli anni successivi le prassi emergenziali sono state perfino rese ordinarie.

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Tanto che l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac) dopo un’attività ispettiva presso le strutture di Roma Capitale tra il 2012 e il 2014 ha rilevato l’«immotivata reiterazione» degli affidamenti nati con l’Emergenza Nordafrica e individuato «strutture di accoglienza [che] non disponevano dei requisiti minimi previsti dalle norme vigenti». Del resto è proprio in quella stagione emergenziale che affondano parte delle radici del business di «Mafia Capitale».