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1968, la nuova frontiera del jazz

1968, la nuova frontiera del jazzMiles Davis e Wayne Shorter nel 1968

Miti/Una lunga serie di titoli iconici usciti 50 anni fa cambiò le coordinate della musica afroamericana Il primo a riscrivere le regole fu Miles Davis, che quell’anno pubblicò tre album in cui flirtava con l’elettricità del rock e Stockhausen. E mentre Bill Evans registra un live epocale a Montreux, Thelonious Monk realizza l’album perfetto, «Underground»

Pubblicato più di 6 anni faEdizione del 2 giugno 2018

Cosa succede nel jazz nordamericano nel 1968, cinquant’anni fa come da canonico anniversario? Molto. E parecchio di quanto va succedendo è sottotraccia, da decrittare con attento dosaggio di indagine. Perché il ’68 documentato dai dischi di jazz ci testimonia innanzitutto una grande, oceanica assenza: s’è spenta la voce del sassofono di John Coltrane, che ha conquistato fino agli ultimi mesi a suonare con un furor eroico e straziato assieme, come ci indicano due pubblicazioni postume sui suoi ultimi concerti. Aveva chiuso il cerchio della musica, Coltrane, e se si ascolta il concerto alla Temple University in diversi punti (ed è un serio attentato alla stabilità emotiva di un ascoltatore attento) si noterà che Coltrane depone il sax, e grida. Il grado zero della musica di homo sapiens ritrovato come anello finale di una catena che invece lui aveva proiettato nel futuro. A partire da quel ’68 che non ha fatto a tempo a vedere, ma con una lezione di amore per le creature del pianeta che scorre in perfetto parallelo con certe istanze pan-mistiche del «Movimento» mondiale, mentre le piazze si infiammano.

CULTURE POPULAR
Quando «Trane» se ne va, lasciando al mondo una discografia diventata oggi elefantiaca, ma certo non inutile, e una chiesa nordamericana a lui dedicata dove si suonano le sue note torrenziali alle funzioni e si onora la figura mite e pensierosa dell’uomo come un santo, il jazz sta scorrendo impetuoso per tanti torrenti vitali. L’immagine pacificata del «grande fiume» che domina la prima parte della storia del jazz, il Big River Mississippi dove giocava il monello Mark Twain va sostituita con una cartografia di rapide e secche, cascate e nuovi affluenti. Nel ’68, ad esempio, Miles Davis ha finito di aguzzare le orecchie su quel modo della popular music che ha pressoché estromesso il jazz dal grande consumo popolare. I jazzisti dell’epoca vivono la faccenda con curiosa ambivalenza: da un lato ci sono quelli che deducono che, tutto sommato, un po’ di Beatles in jazz e di rock in genere non si negano a nessuno, specie se fanno alzare un po’ le vendite. Ed ecco allora Ella Fitzgerald che canta i Beatles, la World’s Greatest Jazz Band che suona Simon & Garfunkel, e così via. Manovra illecita e meramente commerciale? Sì e no. In fin dei conti il jazz s’è sempre appropriato dei materiali più vari, usandoli come base grezza per innestarci il suo dna di musica afroamericana e di molti altri incroci, purché il tutto diventasse una biologica e sensata macchina del ritmo. Però Miles nel ’68 sta cominciando ad andare da un’altra parte: non «svolta» verso il rock, come tanti poi diranno, perlopiù a sproposito. Incorpora il «soundscape» contemporaneo della nuova musica elettrica popular nella sua, avendo intuito che nell’iterazione di certe frasi e nell’elettricità stordente si cela l’infinito principio modale che sostanzia le culture autenticamente «popolari» del pianeta. E dunque un occhio ai raga indiani, uno a Stockhausen e a chi lavora con le serie dei suoni, uno a Jimi Hendrix. Che nel ’68, peraltro, è andato a riposarsi in Marocco, e lì ha ascoltato stupito i magnifici musicanti Gnawa, la setta di musicisti-guaritori Sufi che con la ripetizione in musica e il «botta e risposta» tra le voci è davvero, per dirla con William Burroughs, «una rock band di tremila anni fa».
Fatta la tara sulla precisione cronologica, ci siamo. Dunque Miles che prepara la grande spallata, il discrimine acustico/elettrico che farà imbestialire, ex post, gente come Wynton Marsalis, ben decisa a piazzare il paletto del «vero jazz» in quell’anno cruciale. Dopo, terra incognita degli sgraziati leoni elettrici, prima il jazz debitamente mummificato in musica di genere. Una musica classica afroamericana rispettabile e da esposizione elegante, in smoking. Miles nel ’68 fa uscire una tripletta di dischi, tanto belli quanto inquieti, nel far presagire che le antenne dello sciamano hanno intercettato nuove fonti di ispirazione, e la prossima mossa sarà quella spiazzante del Bitches Brew, tutti ammollo nel calderone elettrico, con la chitarra spiritata di John McLaughlin. Si tratta di Nefertiti, Miles in the Sky, Filles de Kilimanjaro. In formazione c’è il giovanissimo batterista Tony Williams, uno che si inventa i più complessi labirinti poliritmici con l’aria di esser lì per caso, Wayne Shorter, che poi diventerà una delle menti dei Weather Report, passando al sax soprano, Herbie Hancock, che in Miles in the Sky approccia le sonorità morbide e inquietanti del piano elettrico, mentre le composizioni, in questa fase esplorativa, grazie soprattutto a Shorter, si muovono in complesse figurazioni nate da singoli accordi, usati come basi-pedale per escursioni su scale di note, dunque come nei «modi» delle tradizioni popolari più complesse. Nell’ultimo disco arriva anche Chick Corea, e la musica ha assorbito anche le sensuali spire del soul, che appare in controluce: diventerà tutta evidenza da lì in avanti.

VIAGGI COSMICI
Se Miles sta sperimentando nuove piste, ma resta figura iconica conclamata del jazz anche più «mainstream» (le incomprensioni vere arriveranno da lì in avanti, e fino alla metà dei Settanta) c’è chi, nel ’68, ribadisce che i nuovi percorsi bisogna aprirseli anche a forza di colpi di testa spiazzanti, soprattutto se si hanno in testa architetture di suono al contempo futuribili e antiche, rétro e ipermoderniste. Se il mondo non capisce, si adegui, o si lascia andare al contorno della musica, che è fatto di canti cosmici rituali, costumi di scena impossibili, orazioni e giocolerie circensi. Herman Poole Blount, noto al mondo del jazz come Sun Ra non ha mai smesso di sperimentare, neppure quando scriveva brani di doo wop, (come poi farà Frank Zappa, si noti!). Nel ’68 anche per lui una tripletta di uscite (ma potrebbero essere di più: nulla è più mobile della discografia di Sun Ra!). La gemma più strana e oscura di Sun Ra si chiama Black Mass, ma non è l’unica, come tipico per un uomo che della prolificità creativa è stato, come Zappa appunto, un cultore senza fatica apparente. Sun Ra allo scorcio, dei Sessanta frequentava la Black Arts Repertory Theater School di Harlem di Amiri Baraka-Le Roi Jones, e nel ’66 è la prima di questo strano, affascinante disco per voce e Arkestra che esce nel ‘68: ci sono le parole dell’attivista, poeta, drammaturgo, storico del jazz, e in sottofondo il brusio «cosmico» del viaggiatore delle stelle con il suo organico a dieci musicisti che, assai prosaicamente, invece, aveva imparato a manovrare le orchestre e gli ensemble di vari genere con Fletcher Henderson. Poi c’è Pictures of Infinity, con il sassofonista John Gilmore, sodale di una vita per Ra, in particolare evidenza, e il possente Outer Spaceways Incorporated, con un ensemble a quindici che erutta fiamme e humour, quando si tratta di seguire il Capo nei canti a spasso per le stelle.
S’è detto, in apertura, di John Coltrane: è dal formidabile quartetto storico di «Trane» che arriva McCoy Tyner, protagonista nel ’68 di due folgoranti uscite discografiche. Expansions è in settetto, e il ricordo di Coltrane filtra nelle volute del tenorista Gary Bartz (che nel ’68 pubblica il potente primo lavoro solistico Another Earth: con due coltraniani, Pharoah Sanders e Reggie Workman), e nella scelta inconsueta di aggiungere un violoncello, quello fatato di Ron Carter. Un piede nell’hard bop, uno nelle musiche a venire, con quell’approccio forte e muscolare sulla tastiera, per quarte e impuntature ritmiche. Time for Tyner, in quartetto, e con Bobby Hutcherson, è già futuro: a partire dal titolo della lunga cavalcata in apertura, African Village, che dà indicazione su dove andrà a parare la musica del pianista di «Trane» di lì in avanti, e per parecchio tempo. Il pianista che Miles ha appena assunto, Chick Corea, se ne esce nel ’68 con For Joan’s Bones, primo suo lavoro solistico, e Now He Sings, Now He Sobs. Il primo lavoro, mutatis mutandis, potrebbe essere messo decisamente in linea con quanto s’è detto di Tyner: con la curiosità di un immenso Steve Swallow al basso, che è ancora l’ingombrante fratello maggiore del violoncello, non l’affusolato basso elettrico che oggi tutti associano in automatico al bassista decano. Il secondo, in trio con Roy Haynes alla batteria e Miroslav Vitous al contrabbasso (che poi diventerà il formidabile bassista della prima Mahavishnu Orchestra) è già una prova di maturità maiuscola, con accenni a quel tocco «latin» che poi sarà un marchio di fabbrica per l’irruento pianista.

COMPROMESSI
L’altro pianista di Miles Davis, Herbie Hancock, che ha già sfornato giovanissimo nel ’65 il suo capo d’opera con Maiden Voyage, risponde a Corea con Speak Like a Child, un disco che potrebbe funzionare da manifesto di quel «suono Blue Note» che la raffinata etichetta discografica proponeva al mondo come possibile compromesso estetico tra la spinta dell’hard bop vecchia maniera e le innovazioni armoniche (quasi imprescindibili) introdotte da Coltrane. Elemento verificabile anche, ad esempio, in un altro disco pianistico importante del ’68, Andrew!, con tanto di punto esclamativo per cercare di attirare un po’ di attenzione sul magistrale (ma certo poco «popular») tocco di Andrew Hill.
Vive un momento di strepitosa felicità di suono anche un altro musicista che s’è trovato alla corte di Miles nel discrimine epocale del ’59, quello di Kind of Blue. Si parla di Bill Evans, naturalmente. L’esibizione trionfale del più lirico, introspettivo e raffinato dei pianisti della linea che porterà a Jarrett, Mehldau e Svensson è al Festival di Montreux, e il disco Bill Evans at the Montreux Festival uscito nel ’68, sanziona un magistero a tutt’oggi inscalfibile, quando si parla di mani sugli ottantotto tasti che privilegino lo scavo armonico nelle griglie di accordi, a loro volta costruiti con raffinatissimi voicing, scelte di note: il tutto, sempre, mostrando al mondo com’è che nel jazz si sviluppa un lavoro paritetico con la più «classica» delle formazioni, il trio.
Se dovessimo trovare invece nella scena jazz del ’68 un disco simbolo della circolazione di culture caotica, vitale e sfrenata che stava accadendo nel pianeta, forse la scelta dovrebbe cadere su un ellepì di Don Cherry, il suonatore di «tromba tascabile» e di mille attrezzi usati nelle musiche «etniche» che in questo periodo ha riscoperto l’infinita scaturigine di pura melodia del suo alter ego Ornette Coleman nelle rifrazioni di mille schegge di «world music» ante litteram. Eternal Rhythm del ’68, diviso in due lunghissime porzioni, è una reazione chimica di musica che mette in conto la costruzione di ponti azzardati tra blues e gamelan indonesiano, jazz della «New Thing» e certe esperienze di musica contemporanea. Un’esplosione dionisiaca di amore «panico» per il mondo, che sarebbe molto piaciuta all’ultimo Coltrane. Registrata dal vivo a Berlino. Don Cherry si circonda di musicisti europei, soprattutto: gente come Arild Andersen, Joachim Kuhn, Karl Berger, che poi da lì spiegherà il volo. Le esperienze successive saranno meno radicali, ma sempre nel solco di questo dialogo tra culture privo di ogni mediazione razionale: ci si vede, si improvvisa, si suona. E che la base sia una ninnananna africana o un antico canto scandinavo è lo stesso, nel mondo a colori di Don Cherry.
Si muove sulle stesse piste mondialiste, nel ’68, anche un sassofonista nordamericano che ha assunto il nome arabo, come molti jazzisti della sua generazione: era William Emanuel Huddleston, al secolo, diventerà Yusef Lateef, a partire dal 1950. Già all’inizio degli anni Sessanta Lateef usa alternare al timbro virile, rugoso e pieno del suo sax tenore le mille sfumature timbriche dei fiati più svariati che si possano trovare alle diverse latitudini: probabilmente influenzando anche Coltrane, che sul sax soprano prende un’intonazione «etnica» da oboe popolare. Nel ‘68 esce un disco memorabile come il ricordato capitolo di Cherry, per Lateef, un altro «marcatore d’epoca», per la gioiosa caoticità di musiche dal mondo raggrumate attorno a un progetto discografico che invece viene venduto come «jazz» e basta. Il disco, inciso nell’aprile del ’68 e uscito allo scorcio dell’anno cruciale è the Blue Yusef Lateef. Scafati leoni del jazz di Detroit in studio, come il trombettista Blue Mitchell e il chitarrista Kenny Burrell, poi ci sono il giovane Bob Cranshaw al basso elettrico (un futuro sicuro, poi, con Sonny Rollins), e Cecil McBee al contrabbasso, un coro femminile gospel non meglio identificato, un armonicista, un quartetto d’archi. La ricetta sarebbe già di per sé ricca, ma Lateef aggiunge al sax il tamboura a corde orientale, l’oboe popolare shennai, la cetra giapponese doto. Poi imprime un selvaggio movimento alla musica, che oscilla tra frugolanti atmosfere«barrellhouse» alla New Orleans e bozzetti giapponesi in odore di psichedelia, lacerti di Brasile e sviluppi politonali. Gran disordine (musicale) sotto il cielo, e dunque, per dirla con Mao, situazione eccellente.

SERRARE LE FILA
Un altro fiatista eccentrico ha una bella celebrazione sessantottina, dopo esser passato per l’entusiasmante laboratorio della creatività di Charles Mingus, Roland Kirk autodefinitosi Rahsaan dopo una visione: il disco è Left & Right per la Atlantic. Arrangia Gil Fuller, uno che aveva fatto grandi cose con Dizzy Gillespie, partecipa anche Alice Coltrane, la vedova del «grande assente» del ’68, John. Ma c’è anche Pepper Adams, baritonista con pulsante sangue pellerossa nelle vene, e Frank Wess, fiatista che ha strutturato il West Coast Sound. Lui, il cieco dalle grandi visioni Rahsaan suona tenore, stritch, manzello (bizzarrie da trovarobato musicale), clarinetto, flauto, organo, celesta, mbira, il piano a pollice delle ataviche culture africane. Rilegge Mingus, Billy Strayhorn a fianco di Duke Ellington, Quincy Jones, e sembrano sogni.
A Chicago, intanto, si stanno serrando le fila, nel ’68, di una delle più entusiasmanti avventure del jazz moderno, quella dell’Art Ensemble di Roscoe Mitchell e Lester Bowie, nato sulle intuizioni folgoranti di un musicista intellettuale come Muhal Richard Abrams. Congliptious offre tre brucianti momenti in solo totale per Mitchell al sax, Bowie alla tromba, Malachi Favors al contrabbasso, e una lunga performance con l’aggiunta del batterista Robert Crowder che ricapitola tutti i cardini della «great black music» dell’Art Ensemble che sarà: ironia e senso della storia, furore e dolcezze siderali e infantili. E quel mare di strumenti e strumentini che si affacciano turbinosamente sulla scena come in una pièce teatrale affollata di figure afroamericane. Il ’68 del jazz è anche qualcosa di meno azzardato, di più terrigno e solido: lo chiamano «soul jazz» e sembrerebbe, almeno all’apparenza, una reazione a certa astrattezza bebop precedente, a certe algide movenze in musica del cool jazz, westcoastiano o no. In realtà è un recupero «a posteriori» di uno spirito funk e blues che è tutto intellettuale, ma serve a dare alla musica una ritrovata fisicità, e qualche goccia di sudore in più.
Lo praticano discograficamente nel ’68 Cannonball Adderley con Accent on Africa, il Duke Pearson di Angel Eyes, Big Band e The Right Touch, Blue Mitchell con Heads Up, Lou Donaldson con Midnight Creeper, Stanley Turrentine con The Look of Love e Always Something Here, Bobby Timmons con Got to Get It e Do You Know the Way? Qualcuno presidia una «terra di mezzo» che non è né avanguardia, né mera fisicità: il potente sassofonista Hank Mobley di High Voltage e Reach Out, l’urticante Eric Dolphy di Iron Man, il Donald Byrd di Slow Drag, il Sonny Criss di Sonny’s Dream. E ancora: Oliver Nelson con Soulfulbrass, Cedar Walton con Spectrum. Qualcuno presidia le posizioni con eleganza assoluta, prima di arrendersi al nuovo, e firmare addirittura con l’effimera etichetta dei Beatles, la Apple, con il «logo» della discordia, fatto appunto a mela: è l’inaspettato Modern Jazz Quartet. Under the Jasmin Tree è mainstream compassato e blasè, in pieno ’68: gli echi psicdedelici di Space arriveranno l’anno dopo, e sarà tutt’altra storia.
Un disco che, da solo, si regga tutto lo sforzo del ’68, in bilico tra passato e futuro, avanguardia e radici, grafica di copertina compresa? Underground di Thelonious Monk. Raffigurato sulla cover al piano in un capanno di fortuna- stalla, vestito da partigiano maquis, mitra a tracolla. Tra le altre cose, troverete un lugubre ufficiale nazista legato e debitamente indispettito, bombe a mano, armi varie, una trasmittente, una bella partigiana a guardia, una scritta «Vive la France» sul muro, una bottiglia di whisky sul piano, una placida mucca che osserva il tutto. La fantasia al potere.

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