Cultura

Una stagione politica tra ricordo personale e spunti di riflessione

Una stagione politica tra ricordo personale e spunti di riflessioneLa redazione di Lotta Continua in foto di gruppo nella tipografia del giornale foto WikiCommons

SCAFFALE Il volume «Niente da dimenticare. Verità e menzogne su Lotta continua», di Guido Viale per Interno 4 Edizioni

Pubblicato più di un anno faEdizione del 25 febbraio 2023

Lotta Continua, nata nell’autunno 1969 di fronte ai cancelli della Fiat Mirafiori, scioltasi nell’autunno del 1976 con il congresso di Rimini, non è stata solo la più numerosa organizzazione della sinistra extraparlamentare in Italia. Ha rappresentato anche la «medietà» del Movimento di allora, perché più che in qualsiasi altra organizzazione convivevano al suo interno espressioni di quasi tutte le aree politiche movimentiste.

Proprio in virtù della sua natura poco o nulla dottrinaria, Lc incarnava infine, nonostante la professione di comunismo e la fede rivoluzionaria, una rottura con il passato che restava molto più latente, e a volta inesistente, in organizzazioni che si rifacevano alla parabola storica del movimento operaio o alle «eresie» marxiste come l’operaismo.

Se si dovesse parlare del movimento degli anni ’70 prendendo una parte per il tutto, quella parte non potrebbe che essere Lotta continua.

DI LOTTA CONTINUA Guido Viale, 26 anni nel ’69, è stato uno dei principali dirigenti dal primo all’ultimo giorno. Prima ancora era stato tra i portavoce eminenti del Movimento Studentesco che, con l’occupazione di palazzo Campana nell’autunno del 1967, aveva acceso la miccia del Sessantotto.

Di quella lontana ma tutt’altro che sbiadita esperienza Viale parla ora in un libro sintetico e denso, volutamente privo di struttura rigida e ordinata, che riprende spesso, aggiornandoli, scritti e riflessioni pubblicati nel corso dei decenni: Niente da dimenticare. Verità e menzogne su Lotta continua (Interno 4 Edizioni, pp. 163, euro 15).

Non è né vuole essere una storia di quella organizzazione ma un collage di spunti di riflessione, interpretazioni, ricordi personali.

Le menzogne a cui allude Viale sono soprattutto quelle che si sono accumulate nel corso della lunghissima vicenda processuale conclusasi con la condanna di Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi per l’omicidio Calabresi. Sono pagine che trasudano rabbia e vibrano d’indignazione, a tratti appaiono persino incredule di fronte allo stravolgimento di ogni correttezza giuridica in quei processi, ma aggiungono poco al molto già scritto dallo stesso Sofri e da diversi altri.

Quel «poco», almeno per chi non ne fosse già a conoscenza, lascia davvero ulteriormente sbigottiti per la grossolanità della montatura, che avrebbe dovuto prendere di mira, oltre ai tre imputati, ex dirigenti come il giornalista Paolo Liguori o Luigi Bobbio, figlio di Norberto.

Le verità sono più suggestive. Viale, che ha passato anni di fronte ai cancelli della Fiat e non parla per sentito dire, capovolge l’interpretazione usuale delle lotte operaie esplose a sorpresa nella primavera del ’69 e del loro rapporto con la rivolta degli studenti dell’anno precedente.

Indica come chiave che collega i due movimenti e spiega un’insorgenza operaia destinata a prolungarsi per oltre 10 anni l’antiautoritarismo, il rifiuto della gerarchia allora ferrea alla catena di montaggio ma anche tra i banchi dell’accademia. Rottura della gerarchia non significa solo insubordinazione, ma anche presa di parola, assunzione di protagonismo, scoperta della possibilità di comunicare contro le regole di un sistema che, in fabbrica e fuori, era pensato per rendere quella comunicazione impossibile.

La stessa rivolta delle donne, che fu elemento centrale nello scioglimento del gruppo, si nutrì di quella spinta antigerarchica.

SENZA DUBBIO Lotta continua fu, fra tutte le formazioni della sinistra rivoluzionaria, quella che più rimase permeata dalla spinta antiautoritaria che era stata centralissima nella rivolta studentesca. Fu anche tra quelle, come segnala Viale, che meno affondavano le radici in esperienze politiche precedenti e anche per questo la meno vincolata alle analisi dotte e scolastiche che allora sovrabbondavano.

Viale fa propria, o quasi, la definizione che di Lc diede l’esponente di un’organizzazione rivale dopo il congresso di Rimini: «Uno stato d’animo». Quella relativa indeterminatezza fu la forza del gruppo guidato da Sofri, ciò che lo rese di gran lunga il più rappresentativo e il più adatto ad attrarre i giovani militanti. Ma fu anche la sua debolezza. Vincolate dal filo in realtà sottile del «comune sentire» convivevano in Lc, forse ancor più nella sua variegata base che al vertice, aree, visioni, progetti diversi destinati prima o poi a entrare in collisione.

VIALE NON SI SOFFERMA sugli anni a cavallo tra il 1973 e il 1975, quando quelle diversità diventarono centrifughe con l’«istituzionalizzazione» di Lc da un lato, la spinta opposta di una parte della base e soprattutto dei servizi d’ordine dall’altro, la presa di parola sempre più imperiosa delle donne ed è un limite per la comprensione della parabola di Lc e in fondo dell’intero Movimento.

Affronta invece a viso aperto il nodo della violenza riconoscendo che quelli che fecero la scelta delle armi «avevano ricevuto il loro battesimo politico, la loro prima formazione e forse anche gran parte delle motivazioni verso la decisione di uccidere all’interno di pratiche quotidiane di cui ciascuno di noi era stato parte».

Viale fa però propria, appassionatamente, la tesi della «perdita dell’innocenza», della violenza diffusa dell’estrema sinistra come conseguenza diretta delle stragi, della strategia della tensione.

È una interpretazione non priva di una parte di verità ma anche discutibile, trattandosi in fondo di una delle più radicali organizzazioni che si proponevano di rovesciare con la forza l’ordine costituito. Fa parte dei pregi di un buon libro, del resto, essere prezioso anche quando non se ne condividono tutte le tesi.

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