Il nuovo romanzo di Viola Di Grado, Marabbecca (La Nave di Teseo, pp. 204, euro 19), si apre come uno squarcio sulla realtà: non solo Clotilde, la protagonista, una donna di trentacinque anni che ci si presenta distesa sull’asfalto con un braccio spezzato, afferma di essere felice di sapere che Igor, l’uomo che ama, è morto nell’incidente che li ha appena coinvolti lungo il litorale di Catania, ma è istintivamente attratta dalla persona che li ha fatti uscire fuori strada, una ragazza in infradito e bikini glitterato, che con la postura di un animale selvatico rifrange la luce dell’estate restituendola ai suoi occhi snaturata e seducente. «Angelica l’assassina» rimurgina Clotilde qualche pagina più tardi, un’assassina involontaria e per questo più pericolosa, come lo sono «quelli che ammazzano senza saper ammazzare».

COSÌ, DALL’INIZIO, invece di disperarsi, Clotilde si dissocia dalla sua vita e s’incista in quella «vita giovane» che ha «la bellezza che emana a quell’età dalla trascuratezza». A mano a mano la ascoltiamo raccontarsi con l’andatura vellutata e precisa di un flauto – soffiando sulle cose come a spegnere «un piccolo incendio nella propria testa» – prima in ambulanza, poi più tardi dal letto di un ospedale, in una stanza rosa smunto che ricorda l’interno di un ombelico; scambiare poche serrate battute con l’infermiera che la riconsegna a se stessa come si fa alla fine di un ricovero con gli effetti personali, avvicinandosi al suo corpo in una catena di incestuosi automatismi. «Ma a volte te stessa è un luogo inospitale che prima di poter essere abitato andrebbe bonificato», dice Clotilde. Forse si riferisce prima di tutto alle sue bugie, perché Clotilde è una narratrice inattendibile. «Ho mentito», ripete mescolando di continuo le informazioni sui vivi e quelle sui morti con la destrezza di una cartomante.

DEL RESTO lo facciamo tutti, quando si tratta di raccontare l’irraccontabile, disegniamo con premura le menzogne che ci servono a misura dei nostri vuoti. Ma ci sono cose «come ricordare o impazzire o sprofondare in un coma» che accadono fuori dal tempo, e magari bastasse buttarsi a capofitto in un amore nuovo per cancellare i vecchi solchi, tornare al posto che ti ha vista nascere per la malattia di un padre per diventare quella disgrazia. Se la violenza si potesse compensare con la gioia per la sparizione di chi l’ha esercitata, la vita sarebbe un’esperienza più facile. Invece le cose sono più ingestibili di così, se agli altri è possibile mentire, mentire a se stessi è quasi impossibile. Di Grado gioca con le sue protagoniste come una fabbricante di bambole, ha il tocco dionisiaco della burattinaia nel farle deragliare l’una verso l’altra; i suoi personaggi infestano chi legge come ombre cinesi, pensieri intrusivi, le sue frasi sono versi estratti vivi dalla carne di un sostrato ossessivo. «Viviamo e poi cadiamo in un dolore e poi viviamo ancora. Poi di nuovo cadiamo e viviamo e cadiamo e viviamo e ogni volta siamo diversi. Non c’è continuità se non nella resistenza cieca dell’organismo» racconta Clotilde, che a poco a poco si dirige al centro di una casa-voliera. Quella che sentiamo montare nella lettura è l’angoscia che si prova davanti allo sgocciolare orrorifico della verità, come da un «rubinetto dell’inconscio» – una voce disturbante e delicata, in grado di tramutare la colpa in mangime per uccelli, distribuirla tra gli astanti come un’eucarestia.

CHI HA LETTO I ROMANZI di Viola Di Grado sa che addentrarsi nella sua scrittura equivale a calarsi lentamente dentro un pozzo dal fondo scintillante, guardare nello scrigno delle meraviglie dopo che qualcuno ci ha appiccato un fuoco. Così accade in Marabbecca, sesto lavoro della scrittrice nata a Catania che ha lasciato la Sicilia giovanissima, e che con questa storia torna all’isola «di matti e di mistici e di criminali» con gli occhi di una creatura rinata. «Tutto era succoso, debordante, tutto pretendeva di esistere e di riprodursi». Ecco la Sicilia, ed ecco «la sua luce storpia che forza il concetto di vita, lo porta allo sfinimento, a marcire troppo presto». È proprio questa vitalità soffocante, dove «tra un’eruzione e un terremoto si fa sempre festa e questo far festa somiglia a venire a patti con la morte», a incarnare meglio la figura del folclore che dà il titolo al romanzo – la marabbecca, «donna fatta di buio, che dal buio emerge per trasformare in buio anche te». Liquido amniotico, velenoso come l’umore che esala dal vulcano sullo sfondo, «nero, lontano e sordido come un miraggio», un paesaggio dello spirito che respinge e allo stesso tempo cattura in un incantamento. Con la fine dell’estate come in un romanzo l’eroina visse veramente prigioniera, riecheggia Giuni Russo tra un capitolo e l’altro di quella che potrebbe definirsi un’indagine sul male, ma forse è soprattutto un cantico sulla bellezza disastrosa del mondo, un inno alle sue cose rotte, alle sue gabbie aperte e a tutto quello che non è possibile aggiustare.