Il cielo è d’un inchiostro bluastro. Si spenge in un crepuscolo freddo. Più che per contrasto, la luce si deposita con una estenuazione che par giunta allo stremo e annuncia il buio. Già lo contiene. È un chiarore che proviene da una fascia lontana il cui riverbero è ostruito e interrotto da sagome scure, tra le quali si insinua a fatica. Sagome di uomini che vestono anonime divise e indossano caschi dalle visiere calate. Visiere che rubano, mentre lo attenuano, un residuo filo di luce. Ciascuno tiene levato a due mani innanzi al petto un bastone di gomma dura. Numerosi e compatti, immobili a formare una prima schiera. Hanno occupato tutto il terreno e lo presidiano. Da qui non si passa. Lo schieramento è a ranghi serrati.

In primo piano, rivolto verso di noi che osserviamo con raccapriccio la scena, un giovane uomo ha sul volto una maschera di gesso che tutto lo nasconde. Su quell’ovale bianco quanto di luce ancora resta ha modo di rifulgere. E più intensa si accende sulla macchia rossa di vivo sangue. Cola dalla fronte il sangue, macchia l’orbita e riga una guancia.

Dietro la maschera che è insieme immacolata e ferita avverti, senza poterlo incrociare, lo sguardo che il giovane ti rivolge. Non è una richiesta d’aiuto che vi leggi, ma una denuncia. Della violenza cieca, della repressione brutale, della negazione omicida. E nella denuncia che ti pone innanzi, quel giovane ti chiama a prender parte, a reagire, a lottare contro la sopraffazione, contro ogni prevaricazione. Avvolto attorno all’asta tiene nella sinistra un drappo rosso.

C’è una scalinata di travertino. I gradoni salgono su su in una prospettiva dal basso, ad incontrare, gli ultimi, un cielo vuoto, anonimo. Al primo scalino è rotolata la testa di marmo d’un leone. Tra la criniera ha scolpita un’espressione di sofferenza. Cinque gradini più in alto, dove la scalinata si interrompe in un ripiano prima di riprendere a salire, due agenti nella guaina impermeabile che interamente li fascia, protetti dalle celate abbassate dei caschi, brandiscono manganelli ed imbracciano ampi scudi circolari.

Sono nell’attitudine di controllare lo stato di qualcuno che abbiano abbattuto a terra. Ma noi, dal punto di vista che ci consente la prospettiva dal sotto in su che governa la visuale della composizione pittorica, non siamo in grado di rilevare alcun corpo che giaccia sulle lastre di travertino. Pure, questa testa mozzata di leone (la sua ombra un contorto fagotto) ci fa avvertiti che i due hanno colpito duro, senza risparmiare alcuno. E, se v’erano state grida fino a poco tempo fa, e rimbombo di voci alte a scandire parole e invettive e a incitare, ora il silenzio è sceso sui travertini e degli spigoli scussi di quelle pietre ha assorbito il brivido freddo.

Sulla deserta scalinata assistiamo ancora ad una seconda scena. Si svolge sotto un cielo azzurro. Lo attraversa l’arco di vapore bianco rilasciato da un reattore che decolla verso lo spazio aperto. Discende la gradinata, lassù, un uomo in abito scuro e scuro il volto. Si staglia sul turchino. Il vento solleva la falda della giacca. Viene verso di noi per giungere sul primo scalino. Qui sta la maschera bianca insanguinata, nere le vuote orbite, rotta sul mento e da un lato sbeccata, da qualcuno lì deposta delicatamente. Su una gota la cicatrice d’una ferita, e colature nere segnano le vene della pietra dove sta appoggiata.

Ho descritto tre tavole ad olio che fanno parte del ciclo Occidente realizzato da Franco Mulas tra 1968 e 1969. Mulas racconta come le istanze di cambiamento che attraversano allora la società europea e americana venissero respinte e soffocate. Richieste di piena giustizia, di crescita delle libertà, di messa al bando dei razzismi, di opposizione alle guerre sono combattute e represse con cruda violenza a Roma, a Parigi, a Berlino, a Washington.

Le città dell’occidente divengono il teatro di scontri, le manifestazioni di migliaia impedite da truppe di intervento che non mancano di ricorrere all’impiego delle armi. Mulas dipinge il dopo che subentra alle cariche che attaccano e disperdono i cortei. Intona qui il suo epicedio in dolore e in lode del Sessantotto.