Zhang Lu: «Se la città si sostituisce al genitore, si è persi a casa propria»
Zhang Lu
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Zhang Lu: «Se la città si sostituisce al genitore, si è persi a casa propria»

Berlinale 73 Intervista con il regista cinese, presentato in concorso il suo «Shadowless Tower»
Pubblicato più di un anno faEdizione del 19 febbraio 2023

Tornano i registi cinesi ai festival internazionali, dopo una rarefazione legata alla pandemia e alla sua diversa gestione nel Paese asiatico. Per Zhang Lu, 60 anni, è la prima volta alla Berlinale, dopo aver presentato i suoi lavori precedenti anche a Cannes e Venezia. Shadowless Tower, incluso nel concorso, racconta la storia di Gu Wentong e dell’effetto che i fantasmi del passato hanno sul suo presente, che trascorre tra una bevuta e l’altra «subendo» la vita, prima che l’incontro con la giovane fotografa Ouyang Wenhui lo spinga a fare i conti con le proprie origini. «La gentilezza in sé è una buona cosa, ma essere troppo gentili può diventare un problema. Per il protagonista è un modo di mantenere una distanza, di tenere chiusa una porta» spiega il regista e sceneggiatore.

Ha dedicato alcuni dei suoi film precedenti alla minoranza coreana che vive in Cina, a cui anche lei appartiene. Stavolta però si potrebbe dire che l’estraniamento non deriva da uno spostamento, è connaturato al proprio luogo di origine.

Non si sceglie il luogo in cui si cresce, dipende completamente dai propri genitori. La zona in cui il protagonista abita si chiama «città dell’ovest» ma di fatto è molto centrale, è la parte storica di Pechino, con i piccoli viottoli e naturalmente la torre del titolo, che non sono stati ricostruiti. Piazza Tienanmen non è lontana così come tutti i luoghi caratteristici della città, mentre la parte più esterna è molto più moderna e composta da alti grattacieli. Il padre di Gu Wentong era di quella zona e se ne va via quando lui è molto giovane, si potrebbe dire quindi in un certo senso che viene sostituito dalla città, e il sentimento di sentirsi perso a casa propria deriva da questa strana connessione che rimanda a una distanza.

Quello delle diversità culturali della Cina è uno dei temi del film, con i tanti dialetti e le varietà di cibo che il protagonista recensisce. Crede che il pubblico europeo ne abbia un’idea adeguata o deve essere ancora «educato» a riconoscerle?

Gli europei hanno molti stereotipi sulla Cina ma vale lo stesso anche per noi. È una questione complessa, riguarda persino la città in sé per esempio, si potrebbe dire che quella parte di Pechino sia molto stereotipata con quel suo classico «stile cinese».

Prima di essere un regista, lei era un romanziere. Nel film ci sono molti riferimenti letterari, tra cui una battuta su Roland Barthes per cui «Frammenti di un discorso amoroso» sarebbe un titolo fuorviante.

Il protagonista è una persona che ama molto la letteratura, un tempo scriveva poesie e per il fatto che ha smesso viene talvolta considerato un poeta fallito. Ma anche se ora si dedica a qualcosa di più pratico, come scrivere di cibo, questo non modifica il suo attaccamento ai libri. Tra gli anni 80 e 90 Roland Barthes era molto popolare tra la gioventù cinese più acculturata, ma chi non fa parte di quel mondo, leggendo il titolo, può pensare si tratti di un libro per fare colpo! Da qui la battuta.

La ragazza che il protagonista frequenta è orfana. È un passato doloroso ma paradossalmente la rende più libera da Gu Wentong, «condannato» a riflettersi nella figura del padre?

La ragazza non conosce per nulla i propri genitori, è come se fosse uno spazio completamente bianco. Deve mettere molta energia per riempire quel vuoto e divenire qualcuno, ma nonostante non sia semplice, si impegna attivamente per farlo. Il protagonista invece ha già una storia: il padre ha compiuto un atto considerato vergognoso con cui lui deve fare i conti. Sono due modi diversi di avere a che fare con la questione genitoriale ed è forse il motivo per cui sono così attratti l’uno dall’altra.

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