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Zambia, le voci dei bambini sono al «Riparo»

Zambia, le voci dei bambini sono al «Riparo»Nel centro di accoglienza per bambini di strada «Mthunzi», nato agli inizi del 2000 alla periferia della capitale dello Zambia – Elena Berto

La storia Alla periferia di Lusaka, dove un tempo regnavano solo isolamento sociale e povertà sorge un centro di accoglienza per minori salvati dalla strada. Benvenuti a Mthunzi

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 25 gennaio 2019

Mthunzi è voci di bambini che ridono, Mthunzi è un pick up stipato da venti persone, Mthunzi è partite di calcio la cui parola fine viene messa solo dal tramonto del sole.

MTHUNZI, «RIPARO» in lingua nyangja, è un centro di accoglienza per bambini di strada nato agli inizi del 2000 alla periferia di Lusaka all’interno di una zona semi-rurale dove si alternano villaggi contadini e quartieri popolari come Chikondano («luogo dell’amore reciproco»), un ex villaggio a luci rosse ora diventato uno slum, Kanyama (il più grande insediamento informale dello Zambia con 400 mila persone) e Lilanda (richiamata nelle cronache per presunte uccisioni rituali).

Qui la cooperazione italiana, attraverso l’associazione Amani, è stata protagonista di attività di accoglienza, educazione, arte di oltre 500 bambini. Ma l’intuizione iniziale è del missionario comboniano Renato “Kizito” Sesana, che negli anni ’80 aveva acquistato il terreno e una casa in quella che a quel tempo era foresta. L’obiettivo iniziale della comunità era quello di associare giovani e famiglie in un gruppo solidale, che potesse vivere del lavoro della terra e allo stesso tempo condividere la vita quotidiana, le risorse disponibili, riuscendo così a contrastare con maggiore efficacia le avversità di quel periodo.

TRA IL 1960 E 1980 infatti i cambiamenti politici ed economici in Zambia spingono grandi masse di persone a spostarsi dalle campagne alle città in cerca di lavoro. Questo processo mette in discussione le norme sociali e culturali tradizionali, indebolendo i legami propri del nucleo familiare allargato e spingendo fortemente verso l’occidentalizzazione e l’individualismo. Le periferie delle grandi città divengono quindi teatro di un’urbanizzazione incalzante e spesso disordinata, luogo di isolamento sociale e povertà, a fronte di uno sviluppo economico che arricchisce solo una fetta della popolazione mentre il restante lotta ogni giorno per la sopravvivenza.

 

Foto di Elena Berto

 

I MEMBRI DELLA COMUNITÀ iniziano così a vivere insieme, a condividere i propri beni materiali, a coltivare la terra e sostenersi reciprocamente con l’idea di costruire una società migliore. La terra acquistata si trovava nel mezzo di una selva e apparteneva a una famiglia sudafricana la cui attività principale era l’allevamento e l’estrazione del veleno dai cobra.

«LA ZONA ERA PIENA DI SCIMMIE e la signora sparava ad ogni essere in movimento – ricorda il missionario -, loro erano venuti qui per protesta contro l’apartheid, non volevano essere parte di un paese fondato sulla discriminazione. Dopo la morte del marito e con l’età che avanzava la signora preferì andare in città vicino ai figli e ci diede il terreno a un prezzo di favore. I primi anni li passammo a sistemare il terreno e a costruire le case e imparare a vivere secondo quando indicato nel vangelo: “Tra loro tutto era in comune”. Purtroppo poi negli anni ’90 sono morti ben otto membri della comunità e abbiamo vissuto un periodo di grande difficoltà, inoltre con il crollo del prezzo del rame il paese stava affrontando una grave crisi economica, peggiorata dal diffondersi dell’aids. Tuttavia – prosegue padre Kizito -, a fine anni ’90 abbiamo iniziato a riprenderci e abbiamo deciso di impegnarci per quello che all’epoca ci sembrava il tema più importante di tutti: i bambini di strada».

NON APPENA IL GOVERNO ebbe notizia di quanto stava accadendo mandò in pochi giorni 60 bambini. Moses Chimwanga è uno di quei bambini: «Sono nato nella provincia del Copperbelt (la cintura del rame, ndr), ma non sono andato a scuola e a sette anni sono saltato su un treno per andare da mio zio a Lusaka, ma non è andata bene e in poco tempo sono finito in strada: annusavo jenkem, (un potente solvente, ndr), lavoravo solo per bere e respirare jenkem» finchè non ho scoperto Mthunzi.

Ora Moses è il manager responsabile dell’intera struttura: «Per noi sono centrali le relazioni, qui nessuno è solo, nessuno è costretto a parlare con la televisione, come i vostri anziani, o a prendere un cane di compagnia, abbiamo più problemi di tipo economico, ma se lavoriamo insieme possiamo farcela».

SONO LE 18.30 E IL SOLE DECLINA rapidamente nel pick up si riempie superando la soglia psicologica delle venti persone così alcuni tornano a piedi: lungo la strada polverosa si alza un forte vento, ma Peter sorride: «Se continua ad arrivarmi addosso questa sabbia divento mzungu (bianco) come te».

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