Dentro lo showcase del teatro croato tenutosi a Zagabria nel maggio scorso l’innesco di suggestioni, riflessioni ed emozioni è stato così forte da poter dire di una scena teatrale dinamica e rigenerata dal punto di vista artistico e dal punto di vista generazionale. Nove spettacoli in quattro giorni di programmazione nei teatri di Zagabria, il Kremepuh Satirical Theatre, Kunsttheatre, &Td Theatre, Zagreb Youth Theatre, Croatian National Theatre, Gavella City Drama Theatre, il Centro Culturale Travno, il Caffe Bar Crni Macak. Tanti i testi e le opere che esploravano temi socialmente rilevanti insieme a una forte tradizione attoriale che si trasmette di generazione in generazione con eccellenti livelli performativi ed esiti sorprendenti: da tener d’occhio le performer di Cabaret Fatale Petra Chelfi, Martina Tomic, Ivana Pavlovic dirette dalla regista e coreografa Matea Bilosnic come pure il cast di Hiromi Rea Busic, Silvio Mumelas, Vedran Zivolic e Matija Cigir diretti da Vid Hribar e la vibrante performance poetico-musicale Songs, just in case di Nina Bajsic con Rea Busic.

Per non parlare delle coproduzioni fra artisti bosniaci, serbi, croati nel segno di un dialogo culturale mai interrotto, nonostante le guerre balcaniche degli anni Novanta abbiano prodotto separatismi, nazionalismi e autarchia.

Impressioni, queste, un po’ diverse da quelle consegnate al magazine croato Index da Rade Serbedzija, l’attore più rappresentativo e autorevole della vecchia Jugoslavia che si esprimeva così sulla vita teatrale di Zagabria e della sua prestigiosa Accademia di Arti Drammatiche: «Zagabria è una città morta, i palcoscenici di Zagabria sono criminali, le persone di Zagabria che sono impegnate in questo business, quelli che gestiscono il teatro sono, per la maggior parte, mediocri e burocrati. Zagabria è diventata una città che ha espulso tutte le sue forti personalità eccezionali. Zagabria è diventata semplicemente una città triste».

Sembra invece portare in tutt’altra direzione questo show case e grande merito va riconosciuto all’intelligenza e alla passione di Zeljka Turcinovic. Il programma ha rispecchiato criticamente temi e problemi del Paese e delle Regioni vicine dove cultura, teatro e politica sembrano viaggiare su traiettorie diverse se non opposte, l’una percepita come spazio aperto di dibattito e cooperazione, veicolo di cambiamento, l’altra abbarbicata a valori tradizionali che cozzano con i bisogni di libertà e di partecipazione delle persone.

Si potrebbe perciò partire dallo spettacolo Death takes a holiday presentato in prima nazionale nel centralissimo Kremepuh Satirical Theatre, adattamento abbastanza fedele del testo Le intermittenze della morte di José Saramago con la regia del serbo Kokan Mladenovic e il cast del Kremepuh: la scomparsa della morte in un piccolo villaggio o la morte che si prende una vacanza provoca reazioni e comportamenti anomali, ipocrisie e affarismi, propaganda e retoriche patriottiche, ambiguità e trasformismi in una brillante giostra dell’assurdo che denuda le comuni ambizioni e ossessioni del potere religioso, politico e criminale. Con paradigmi e dispositivi neo-brechtiani, che utilizza canzoni e paradossi, musiche di Schubert ed enunciazioni forti, Kokan Mladenovic si interroga sul rischio che la storia si ripeta con le sue nefandezze e che si precipiti di nuovo verso l’abisso.

Non sempre capita di apprezzare negli spettacoli l’impianto progettuale, la forza delle idee e dei messaggi e nello stesso tempo le qualità interpretative, drammaturgiche e registiche con soluzioni e invenzioni che rendono emotivamente sorprendente quello che accade sulla scena.

È quanto successo invece con due spettacoli che hanno portato in scena anche generazioni diverse di artisti: You can be anything prodotto e presentato nello spazio indipendente del Kunstteatar e Sorry presentato e co-prodotto dal Teatro Nazionale Croato insieme alla rete di teatri europei di cui fa parte anche il nostro Emilia Romagna Teatri nell’ambito del progetto Prospero finanziato dal programma Creative Europe.

Nel primo caso le intenzioni sono esplicite: non si tratta solo di uno spettacolo teatrale ma di uno spettacolo femminile, ci tiene a sottolineare la giovane drammaturga e regista Ivana Vukovic. E si potrebbe anche dire spettacolo sulla produzione degli stereotipi di genere e soprattutto sul linguaggio dei corpi femminili.

In scena ci sono Lana Meniga e Nikolina Prkacin, due giovani ed eccezionali attrici nel ruolo di Lenu e Mara ovvero due adolescenti che suonano una serrata sarabanda di battute e dialoghi spiazzanti, di risate, di domande e risposte maliziose. Giocano e scherzano sul piscio «interno» delle donne e quello «esterno» dei maschi, sulla divisione tra donne solo belle e donne solo intelligenti, tra le donne che vengono toccate e quelle stuprate, sui pacchetti scontati per avere circoncisione, inoculazione e piercing all’orecchio o sulla confusione tra la Giornata Internazionale delle Donne e la festa di Halloween, perché poi sempre di streghe si tratta. Si ride e si riflette sulle ragazze che devono sempre mostrarsi carine e disponibili o delle donne che devono regalare felicità e piacere ai propri maschi e mariti. Per Lenu e Mara l’arrivo del ciclo mestruale è il momento delle domande cruciali sulla propria identità quando si aprono altre possibilità di essere e di vivere, si smette di giocare con Barbie perché entrano in gioco altre parole e altre urgenze, si può parlare ad esempio di aborto, tema che in Croazia come in Polonia è sempre di stringente attualità.

Lenu e Mara per tutta la durata dello spettacolo si scambiano ruoli e personaggi, «you be me» dicono, entrano ed escono nelle vite degli altri e delle altre, in una galleria di personaggi (la nonna, l’anchorman, il dottorando cinese, il performer, l’infermiera, l’insegnante e la sua classe etc) tutti necessari per il succedersi delle storie e la scansione di sentimenti e vergogne. Lo fanno con un ritmo, una energia e una immedesimazione totale da rompere il muro tra verità e finzione, tra la fisicità adolescenziale dei loro corpi e il loro immaginario ribelle e non conforme.

You can be anything è lo slogan che affianca la campagna commerciale della bambola Barbie e che lancia messaggi e modelli di bellezza che guardano alla diversità più che alla standardizzazione dei corpi femminili. Ma è soprattutto uno spettacolo che esprime al massimo delle sue potenzialità il gioco teatrale o il teatro come gioco, come sfida totale alle regole, alle convenzioni e ai pregiudizi, come leva di cambiamento delle persone e della società.

Anche in Sorry, lo spettacolo diretto dal regista croato Bobo Jelcic, brilla in maniera sorprendente il talento di Lana Meniga, già studentessa nella stessa Accademia delle Arti Drammatiche di Zagabria dove anche Bobo Jelcic ha insegnato. In scena veste i panni di Allison MacKenzie diciottenne figlia di Constance McKenzie (una superba Jadranka Dokic con i suoi tic e le lezioni moraleggianti), madre separata che scarica sulla figlia tormenti sentimentali, repentini cambi di umore, eccessive premure.

I personaggi sono quelli del film Peyton Place e il bacio di Allison al suo Rodney durante la festa di compleanno è uno dei momenti top di uno spettacolo che esplora il mondo dei sentimenti e delle emozioni come raramente si è visto in teatro, più con i movimenti e le invenzioni dei corpi e dei personaggi che con la forza delle parole. Con tanta ironia, satira, critica della società e dei valori, delle istituzioni, anche teatrali, soprattutto del ceto medio perbenista, conformista e ipocrita.

Il metodo di Jelcic si basa sull’idea di autorialità collettiva, su una costruzione drammaturgica che viene dalle improvvisazioni e azioni degli attori e delle attrici. La trama dello spettacolo è fatta da tante microstorie individuali: l’accademico di New York che arriva nel piccolo paese della provincia croata per riformare il sistema dell’istruzione, la dirigente scolastica zitella prossima alla pensione, dominata da preoccupazioni e paure per il futuro, la comitiva degli amici di Allison, l’ispettore che controlla le aperture del sipario e l’andamento dello spettacolo etc.

Rispecchiano modi di vivere e di pensare nel contesto politico e culturale croato, molto americanizzato e colonizzato. Sorry piace tantissimo ai giovani spettatori perché ritrovano in quei personaggi surreali e assurdi, bizzarri e finti, interiormente fragili, quel sentimento anarchico di libertà dalle convenzioni che nella vita quotidiana e sociale è continuamente represso. È chimica e fisica dei sentimenti allo stato puro tra pianto e risa, felicità e paura, conscio e inconscio che spinge il pubblico verso applausi interminabili. Sarebbe imperdonabile e incomprensibile non far vedere Sorry al pubblico Italiano!

Zeljka Turcinovic, teatro lingua paese

Drammaturga e coreografa, Zeljka Turcinovic è stata consulente per le arti dello spettacolo presso il Ministro della Cultura e dei Media, selezionatrice di tutti i principali festival teatrali in Croazia e nei paesi limitrofi, dirige il Centro croato ITI – l’Istituto Internazionale di Teatro presso l’Unesco. Con l’ITI organizza lo show case del Teatro croato, le abbiamo rivolto alcune domande.

Quali sono i motivi che dal 2005 ti spingono a organizzare lo show case del teatro croato?
Metto a frutto la mia esperienza internazionale, viaggio moltissimo e ho seguito altri show case negli ultimi venti anni, ne ho seguiti almeno dieci tra Russia e Lituania, Estonia e Bulgaria e Israele. A differenza dei festival che ragionano per argomenti o generi o autori (ad Avignone si può vedere il teatro dell’Utopia) , il nostro show case è una vetrina dove mostriamo cosa è il Teatro croato. Se parlo del Teatro Italiano dico Pirandello o commedia dell’arte ma quando dico Teatro croato nessuno sa nulla a causa della nostra storia e della nostra condizione di essere una regione parte di altre nazioni. Mostriamo come facciamo Teatro, cosa c’è di classico e di attuale. I festival spesso propongono il teatro mainstream, noi a Zagabria mostriamo il contemporaneo, la ricerca, qualcosa di speciale per i nostri giorni e per il modo di pensare slavo.

Cosa intendi per mentalità slava?
La riconosci dagli argomenti che affrontiamo. Noi siamo slavi ma nello stesso tempo siamo una piccola nazione con tante diversità. Siamo Mitteleuropa. Ma se vai sulla costa adriatica, trovi un profilo diverso della Croazia, siamo Mediterranei. Rjeka, Spalato, Dubrovnik. Zagabria e Spalato non parlano lo stesso dialetto, anche se la lingua comune che si parla in televisione o si scrive nei giornali è la stessa per tutte le persone. Io sono nata a Zagabria ma mio padre è venuto da Dubrovnik a Zagabria per studiare. Sento Dubrovnik come la mia Arcadia, mi piace stare lì anche se non sono nata lì. È parte fondamentale della mia identità. Mi piace il Mediterraneo.

Dentro di te c’è sangue mitteleuropeo e sangue mediterraneo?
Zagabria faceva parte dell’impero austro-ungarico, Dubrovnik e le città mediterranee invece no. L’architettura di Zagabria è simile a quella di Vienna e di Budapest, queste erano le capitali dell’impero austro-ungarico. È stato così sino alla fine della seconda Guerra mondiale quando siamo diventati Jugoslavia. E con la Jugoslavia capitale è diventata Belgrado.

Con la Federazione delle Repubbliche Socialiste eravate dentro il mood balcanico?
A noi croati non piaceva il socialismo anche se, grazie a Tito, si trattava di un socialismo meno autoritario e rigido. Non eravamo soddisfatti del nostro Stato, del nostro governo. Noi non ci sentiamo balcanici, perché siamo molto vicini all’Europa, siamo Europa. Zagabria dista solo 250 km da Venezia, 350 da Budapest e 400 da Vienna. Naturalmente, non mi vergogno di essere balcanica, ma mi sento più europea e mediterranea. Ora siamo più liberi di quando eravamo Jugoslavia e sotto il socialismo. Anche se il capitalismo è molto crudele e non per niente l’Eden. So la differenza tra socialismo e capitalismo ma mi piace questa specie di società open minded.

Hai dichiarato che più piccolo è uno stato, più grande è l’ego. Come il teatro e la cultura teatrale convivono oggi con le politiche nazionalistiche del governo croato?
Non mi piace il nazionalismo, è una categoria molto negativa, piena di odio, non offre niente di buono specie nella cultura, nel teatro e nelle arti. Tuttavia, la cultura croata è molto aperta, non abbiamo (ancora) problemi di censura. Siamo stati in Guerra trenta anni fa e la guerra è sempre Guerra. La gente di cultura è stata la prima ed è ancora la prima a creare ponti tra le ex repubbliche socialiste. Mi piacerebbe vivere in una società tollerante.

L’emergente Zagreb Dance Company

Non si può parlare di danza contemporanea in Croazia senza citare la ZPA- Zagrebacki Plesni Ansambl (Zagreb Dance Company) fondata nel 1970 da Lela Gluhak Buneta e arrivata a standard professionali grazie a collaborazioni attivate con coreografi internazionali come Kilina Cremona, Norio Yoshida, Martin Sonderkamp, Juan Carlos Garcia, Bebeto Cidra, Emilio Gutierrez, Alexey Taran, Francesco Scavetta, Alexis Eupierre, Martine Pisani e con Lanonima Imperial di Barcellona, tutti avviati da Snjezana Abramovic Milkovic negli anni Novanta e Duemila. Così come sono state decisive collaborazioni e coproduzioni con altri centri coreografici e teatri come lo ZKM- Zagreb Youth Theatre.

A Zagabria non esiste una Accademia Nazionale della Danza, esiste solo un Dipartimento Danza all’interno dell’Accademia delle Arti Drammatiche. Petra Valentic e Petra Glad Mazar sono ora le colonne portanti della compagnia. «Possiamo dire -afferma Petra Glad Mazar- che la danza contemporanea in Croazia è nata circa 100 anni fa quando a Zagabria c’era una scuola aperta dalle sorelle Maletic, e da allora è sempre rimasta ai margini. Dal 2006 lavoro prima come produttrice e ora come direttrice artistica nella compagnia, che ancora non riesce a staccarsi dalla ricerca di un’indipendenza e di un riconoscimento istituzionale che non arriva». ZPA ha portato i propri spettacoli in Italia, in Spagna, Francia, Belgio, Portogallo, a Malta, Corea del Sud, Cina. Le capacità rigeneratrici di ZPA si sono dispiegate attraverso l’avvio del Festival della danza e del teatro non verbale che si tiene dal 2000 ogni anno a luglio in Istria nel villaggio di San Vincenti, non più di 170 anime, diventato un attrattore unico per la scena coreografica nazionale e internazionale. Grazie al festival è sorto da poco il Centro Mediterraneo della Danza in uno spazio di 400 metri quadrati destinato a ospitare soprattutto residenze coreografiche.

Molti giovani artisti emergenti, ma anche affermati, come David Hernandez, Jesus Rubio Gamo, Matija Ferlin hanno trascorso a San Vincenti periodi di ispirazione per la creazione di nuovi lavori. La permanenza nella piccola San Vincenti viene un po’ interrotta a luglio durante il festival. Nel prossimo luglio, per la 25ª edizione, arriveranno Daniel Abreu e Taiat Dansa dalla Spagna, Miloš Isailovic dalla Serbia, Serge Aime Koulibaly dal Belgio, Moveo Dance Company da Malta, e altri artisti da Croazia, Portogallo ecc. «All’inizio – continua Petra – gli abitanti dei villaggi erano felici perché la danza contemporanea era nuova ed eccitante per loro, ci aiutavano, ospitavano i nostri artisti, erano in un certo senso i nostri co-ospiti. Nel corso degli anni l’Istria è diventata una destinazione turistica d’élite, hanno costruito molte ville con piscina… la gente non è molto favorevole ai contenuti creati dagli artisti, preferisce affittare le case ai turisti. Vedremo cosa porterà il futuro sia a loro che a noi. Le condizioni sono sempre più difficili, ma il nostro pubblico è grande e ci motiva tanto! ».