Se si possa morire per nove dollari ieri se lo chiedevano in tanti, nel tentativo di dare un senso all’ultima tragedia yemenita. Si può, in un paese in guerra permanente da nove anni e in cui il salario medio non supera – quando va bene – i 250 dollari al mese. Un paese in cui l’80% della popolazione, oltre 21 milioni di persone, dal marzo 2015 sopravvive solo con gli aiuti umanitari, in entrata col contagocce in un mare di impotente disperazione.

QUEI NOVE DOLLARI spiegano la tragedia, la calca che mercoledì sera ha ucciso almeno 85 persone in una scuola di Sana’a, la capitale dal settembre 2014 in mano al movimento Ansar Allah, volto politico della minoranza Houthi.

Con il Ramadan agli sgoccioli e la grande festa alle porte, l’Eid al Fitr che pone fine al mese sacro musulmano, due ricchi commercianti avevano pensato a una distribuzione di 5mila rial a famiglia (nove dollari, appunto), nel solco di uno dei cinque pilastri dell’islam, la Zakat, l’elemosina ai bisognosi. L’iniziativa privata ha richiamato un numero di persone, si parla di 5mila, impossibile da gestire, in fila da ore prima del tramonto, in un vicolo stretto che conduce alla scalinata della scuola.

Le immagini, diffuse dalla tv locale al Masirah, bastano al racconto: una massa umana informe, al buio, qualche volto illuminato dalla luce artificiale dei soccorritori, che tenta di rubare ossigeno e salvezza arrampicandosi su un mare di corpi appiccicati l’uno all’altro.

Le immagini seguenti raccontano la fine: un mucchio di scarpe impolverate, qualche bottiglia d’acqua schiacciata dal calpestio. Agli 85 morti accertati si aggiungono oltre 322 feriti, una cinquantina in condizioni gravi. Tante donne, tanti bambini. Colpa degli organizzatori, dicono le autorità Houthi: il ministero degli interni accusa «la distribuzione random di aiuti senza alcun coordinamento» da parte dei commercianti, ora sotto inchiesta.

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La pezza messa da Ansar Allah è risibile, duemila dollari a morto e 400 a ferito. Dallo sfondo emerge il significato della strage, plastica rappresentazione della peggior crisi umanitaria globale, artificialmente prodotta dall’operazione militare anti-Houthi a guida saudita ed emiratina. Una crisi che da anni non riesce ad attirare nemmeno più i soldi dei donatori internazionali e ulteriormente esacerbata dalla guerra in Ucraina e il calo dell’importazione di grano.

LA RIDUZIONE della dimensione militare della guerra (con un cessate il fuoco di sei mesi scaduto lo scorso ottobre ma ufficiosamente in vigore) non ha ancora prodotto effetti sulla vita quotidiana del popolo yemenita, che magari non muore più di bombardamenti aerei, ma muore ancora di fame.

Eppure spiragli si aprono, rinverditi dal recente disgelo – mediato da Pechino – tra l’Arabia saudita, guida della coalizione sunnita, e l’Iran, sponsor grigio del movimento Houthi. Tra le prime conseguenze, lo scambio di 869 prigionieri di guerra a cui è seguito il rilascio di altri cento detenuti in territorio saudita.

Ma soprattutto la prima stretta di mano a favor di telecamere tra i due fronti, l’ambasciatore saudita in Yemen e il leader Houthi, Ali Qarshah, lo stesso su cui dal 2017 pesa una taglia da cinque milioni di dollari: è successo il 10 aprile scorso a Sana’a, antipasto di negoziato verso un’eventuale tregua strutturale.

SI DOVREBBE PARTIRE con sei mesi di cessate il fuoco, lungo cui far correre in parallelo un dialogo politico di un paio d’anni. E si dovrebbe consolidare il riavvicinamento tra le zone controllate dagli Houthi e quelle sotto il governo ufficiale dello Yemen dal 2014 in auto-esilio nel sud ad Aden (i salari degli impiegati pubblici sotto l’autorità Houthi verrebbero pagati dal governo) e la sospensione del blocco aereo e navale imposto da Riyadh, da anni principale responsabile della fame.

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Manca un elemento che negli accordi di Stoccolma del 2018 tra governo e Houthi (mai implementato) era almeno nominalmente presente: la partecipazione della società civile al futuro dello Yemen.

A influire sul lento e tortuoso processo di pacificazione, dal perimetro decisamente fumoso, è la situazione dei due pesi massimi del conflitto yemenita. Da una parte l’Iran, alle prese con una rivolta interna che continua, seppur meno prorompente dello scorso autunno, ma visibile nelle mobilitazioni silenziose delle donne che stravolgono il panorama urbano, sempre più «svelato».

Dall’altra parte l’Arabia saudita, incapace di vincere una guerra sempre più dispendiosa, violata sul proprio territorio dalla crescente abilità militare Houthi e di fatto impantanata nel suo personale Vietnam.