Il giovane protagonista ha scelto di ribellarsi ad un sistema che opprime lui come tutti i suoi coetanei, che gli nega il futuro ma anche ogni piccola gioia quotidiana, perfino la compagnia di un cane, unico affetto in un orizzonte dominato dalla solitudine, se si eccettua la compagnia dei libri. È lui stesso a raccontarci la propria storia, ripercorrendo, da imputato in un processo che lo vede alla sbarra per il modo violento in cui ha reagito all’oppressione, una traiettoria esistenziale segnata dalla sopraffazione, dalle umiliazioni patite in famiglia, a scuola, per strada. Il suo memoir doloroso suona però come un atto d’accusa, che, ad ogni passo, finisce per interrogare e mettere alle strette «il sistema» e la società che intendono processarlo. Vincitore del prestigioso Prix de la littérature arabe nel 2022, Bell’abisso (traduzione di Valentina Abaterusso, e/o, pp. 120, euro 14), di Yamen Manai, riflette con amara consapevolezza, ma non rinunciando talvolta ad una sinistra ironia, sulla crisi tunisina dell’ultimo decennio, per molti versi emblema dei sogni infranti delle primavere arabe che avevano annunciato libertà, democrazia e benessere. Classe 1980, nato a Tunisi ma da tempo residente a Parigi, considerato come una delle voci più innovative della narrativa locale, Manai ha già pubblicato una serie di romanzi che raccontano le trasformazioni del suo Paese, dove il realismo si intreccia con la poesia e dove il bilancio necessariamente amaro della situazione non chiude mai del tutto le porte alla speranza.

«Bell’abisso» sembra racchiudere un ampio portato simbolico, eppure si percepisce una certa urgenza all’origine del libro: è stato spinto a scriverlo da un avvenimento concreto?
In effetti, all’origine di questo testo c’è un fatto concreto. Si tratta di una scena di violenza che ha avuto luogo all’interno del parlamento tunisino nel novembre del 2020. Dei membri di un partito islamista hanno aggredito prima verbalmente e quindi fisicamente delle colleghe che non erano d’accordo con loro. E molti tunisini sono rimasti scioccati da queste scene scandalose. Il sogno di una Tunisia pluralista, dove ognuno potesse avere il proprio posto con dignità, che aveva accompagnato la rivoluzione popolare del 2011, è sembrato essere stato dimenticato da questi deputati, per quanto democraticamente eletti. Di fronte a quanto accaduto, mi sono interrogato sull’idea di rappresentatività: il comportamento di questi parlamentari ci rappresenta o va considerato «solo» come un episodio infelice? Il romanzo cerca di rispondere a tale domanda.

Un ritratto dello scrittore Yamen Manai di Odile Motelet

Più in generale, la storia che racconta sembra fare eco alla realtà di un’intera generazione, o forse addirittura di un intero Paese. Il protagonista, dopo aver parlato della Tunisia come di «un Paese allo sfascio» spiega che, a soli 15 anni, «dentro» si sente come un vecchio di mille anni. Come descrivere le cause di questo malessere, condiviso da milioni di tunisini?
Le cause dell’infelicità dell’adolescente del romanzo sono sintomatiche del potente sistema patriarcale che imperversa in Tunisia. Ed è vero che questa stessa infelicità è condivisa da milioni di tunisini. La Tunisia è un Paese giovane, metà della popolazione ha meno di 30 anni, eppure questa gioventù è emarginata, abbandonata a se stessa. I vecchi potenti che gestiscono lo Stato e controllano l’economia non facilitano certo loro la vita, non li aiutano a formarsi e ad impegnarsi, a vedere una qualche possibilità di futuro. Al contrario, a questi giovani vengono messi ogni sorta di bastoni tra le ruote… quando non vengono direttamente colpiti con dei bastoni sulla testa. Subito dopo aver finito di scrivere Bell’abisso, nel 2021, migliaia di giovani tunisini, stanchi del confinamento e del coprifuoco legati al Covid, hanno manifestato il loro disagio. Ebbene, sono stati accolti dai lacrimogeni e oltre 2mila di loro, di età compresa tra i 13 e i 17 anni, sono stati arrestati dalla polizia.

La storia è raccontata in prima persona dal protagonista in quello che appare come un lungo monologo, una confessione o, forse, un memoir doloroso. A quale stato d’animo corrisponde questa scelta narrativa?
Si tratta di un’atmosfera realistica, nel senso di una realtà che va ben oltre i confini tunisini. Non dobbiamo infatti credere che la Tunisia abbia il monopolio del dolore infantile. Ovunque, la causa dell’infanzia merita attenzione e deve essere al centro delle nostre preoccupazioni. Anche nei Paesi ricchi, i bambini sono i primi ad essere esposti alla violenza e alla povertà, per non parlare del pessimo mondo che lasciamo loro in eredità. Forse sorprenderà sapere che in Francia, dove risiedo, 3 bambini su 4 sono vittime di violenza, o che in Italia il 25% dei minori è esposto alla povertà e che negli Usa si registrano più di 3 milioni di casi di maltrattamenti ogni anno.

La violenza e la sopraffazione dominano il libro, al punto che condividiamo con il narratore un senso di minaccia e di insicurezza perenni. Sembra trattarsi di una scelta ben precisa: violenza e ingiustizia riassumono «la cifra» della crisi tunisina?
Dal mio punto di vista, un romanzo esprime prima di tutto la vocazione a raccontare una storia specifica, una traiettoria di vita, più che a riassumere un contesto più ampio. Allo stesso modo, si deve considerare che, malgrado possa apparire come un «testo costruito», dove lo scrittore sceglie gli ingredienti che vuole, interpretando il ruolo di un grande burattinaio che muove i personaggi a suo piacimento, a volte accade esattamente il contrario. L’autore, durante il lavoro di scrittura, può «subire» in qualche modo un’ispirazione, più che sceglierla. Talvolta mi viene fatto notare che mi sono servito di un adolescente per denunciare la violenza nel mio Paese, ma in realtà, mentre scrivevo, avevo la sensazione che fosse l’adolescente, reale come nella vita, a usarmi per questo scopo.

Il padre del protagonista, che incarna tutto ciò che lui rifiuta, insegna «civilisation arabe»: la sua rivolta ha perciò a che fare anche con la messa in discussione della propria identità?
Questa è una lettura possibile, anche se piuttosto netta. Un’altra lettura, più sfumata, ha che fare con il fallimento degli anziani. Il protagonista stabilisce infatti un legame con la disciplina insegnata del padre attraverso i libri della sua biblioteca. Ciò lo aiuta ad approfondire la conoscenza della propria identità, permettendogli di distinguere ciò che è degno di essere conservato e ciò che deve essere invece respinto. Gli elementi rifiutati hanno a che fare soprattutto con l’ipocrisia degli anziani e con l’uso improprio di tutto ciò che può rendere la vita più bella e più significativa. Nel romanzo, il protagonista arriva addirittura a leggere dei versetti del Corano durante la sepoltura del suo cane, cosa assolutamente vietata dalla «fede», perché i precetti i cani non hanno anima. Così il nostro eroe mette in discussione la fede, mostrando allo stesso tempo spirito critico e discernimento. Questo è ciò di cui sono capaci i giovani che leggono. Non si tratta perciò di un rifiuto totale.

Senza avere mai un passo didascalico, e attingendo alla poesia e alla metafora, i suoi libri hanno accompagnato le trasformazioni della Tunisia: dopo la Rivoluzione dei Gelsomini cosa è andato storto, al punto da produrre il quadro drammatico evocato in «Bell’abisso»?
Mi limiterò ad esporre i fatti da uomo di lettere quale sono. Tra il 2010 e il 211 i giovani del mio Paese hanno fatto la rivoluzione. Sia Mohammed Bouazizi, che si diede fuoco, scatenando le prime proteste contro il regime di Ben Ali, che Lina Ben Mhenni, figura di spicco tra i blogger che permise alla protesta di farsi conoscere su Internet al punto da conquistare addirittura le grandi città, avevano meno di trent’anni. Tuttavia, quando è stato necessario formare un nuovo governo, elaborare una nuova politica, i «vecchi» hanno confiscato nuovamente «il sistema» e ci siamo ritrovati con Kaïd Essebsi che, fino alla sua morte avvenuta nel 2019, è stato il presidente più anziano del mondo. Non riusciremo davvero a cambiare le cose finché non daremo una chance reale ai giovani, contando su di loro, coinvolgendoli fino in fondo. Perciò, anche se il giovane protagonista di Bell’abisso potrà essere condannato, non si tratta di una sentenza definitiva o che riguarda la sua intera generazione. Ciò che non ha funzionato ieri ha la possibilità di funzionare domani. L’albero simbolo della Tunisia è l’olivo. Una volta piantato, bisogna aspettare quindici anni prima di veder apparire i suoi primi frutti. Non sono pessimista. Il meglio deve ancora venire.