Non si scherza col fuoco, no a mosse unilaterali per cambiare lo status quo. Il rumore di sottofondo è diverso, ma i ritornelli scelti da Xi Jinping e Joe Biden nel loro colloquio telefonico di ieri sono i soliti. Le parole utilizzate dai presidenti di Cina e Stati uniti, quantomeno su Taiwan, sono pressoché le stesse dello scorso novembre. E non c’è dubbio che Taiwan sia il dossier più elettrico nei rapporti tra Washington e Pechino, ancora di più dopo l’esplosione del caso Nancy Pelosi, la speaker della Camera Usa che avrebbe in programma una visita a Taipei a inizio agosto.

I DUE COMUNICATI emessi alla fine della telefonata, durata circa 2 ore e 20 minuti, sembrano quasi un copia e incolla di quelli di otto mesi fa. Come ormai è prassi, prima è uscito quello cinese, decisamente più lungo e dettagliato: «Xi Jinping ha sottolineato la posizione di principio della Cina sulla questione di Taiwan» e ha «sottolineato che entrambi i lati dello Stretto di Taiwan appartengono a un’unica Cina». Dopo la classica citazione dei tre comunicati congiunti sinoamericani arriva l’altrettanto classico avviso: «Ci opponiamo fermamente al separatismo e alle interferenze di forze esterne». E ancora: «La volontà di oltre 1,4 miliardi di cinesi è ferma sul salvaguardare risolutamente la sovranità nazionale e l’integrità territoriale». Come a novembre, Xi avverte: «Giocando con il fuoco si rischia di bruciarsi. Spero che la parte statunitense possa vederlo chiaramente». Allora Xi aveva aggiunto che la Cina è «paziente e disposta a fare del proprio meglio per lottare per una prospettiva di riunificazione pacifica» ma non aveva escluso l’utilizzo della forza: «Se gli indipendentisti oltrepassano il limite, ci vedremo costretti ad adottare misure decisive». Via carota e bastone, in questo caso resta solo il fuoco (potenziale).

MOLTO PIÙ STRINGATA la risposta americana: «Il presidente Biden ha sottolineato che la politica degli Stati uniti non è cambiata e che gli Usa si oppongono fermamente agli sforzi unilaterali per cambiare lo status quo o minare la pace e la stabilità attraverso lo Stretto di Taiwan». Il che significa, agli occhi cinesi, anche (e soprattutto) non sostenere l’indipendenza di Taipei come Repubblica di Taiwan.

NESSUNA CITAZIONE, come prevedibile, per Pelosi. Non è dato sapere se il mantenimento dello stesso tono rispetto a novembre scorso, nonostante le minacce di escalation e le manovre militari dei giorni scorsi, possa significare che tra i due ci possa essere stato una sorta di “assenso” sul modo in cui far fronte alla vicenda. Ma un accordo generale, come sempre, è fuori discussione. Oggi l’esercito cinese avvia due giorni di test navali, mentre ieri i militari taiwanesi hanno sparato un razzo per allontanare un drone in prossimità delle isole Matsu.
Xi e Biden si sono scambiati anche opinioni sulla «crisi ucraina». La Casa bianca sta cercando da tempo la (difficile) collaborazione di Pechino per imporre un tetto al prezzo del petrolio. Più aspettative forse sul fronte commerciale, con Xi che ha invitato gli Usa a sostenere la stabilità delle catene di approvvigionamento globali. «Il disaccoppiamento» non contribuirà «a rilanciare l’economia statunitense», ha detto Xi, ammonendo che considerare la Cina come «il principale avversario strategico» è «un errore di valutazione» che «danneggerà le popolazioni dei due paesi e la pace». Entrambi hanno mostrato l’intenzione di voler continuare a «tenere aperti i canali di comunicazione», cooperare qualora possibile e gestire «responsabilmente le differenze di vedute». Pelosi permettendo.