Xi alla terza: i fedelissimi gli regalano la storia
Cina Unico candidato votato all’unanimità, il segretario del Partito comunista cinese resta presidente. Non era mai successo prima. Resta la tensione su Taiwan: Taipei conferma i colloqui con gli Usa per un deposito di armi
Cina Unico candidato votato all’unanimità, il segretario del Partito comunista cinese resta presidente. Non era mai successo prima. Resta la tensione su Taiwan: Taipei conferma i colloqui con gli Usa per un deposito di armi
«Il candidato Xi Jinping ha 2952 voti in suo favore». Scroscianti applausi dei quasi tremila delegati della Grande sala del popolo di Pechino.
È il momento in cui viene annunciata l’elezione di Xi a presidente della Repubblica popolare cinese. Per la terza volta e, come nel 2018, all’unanimità. «Giuro di seguire la costituzione e di costruire un paese socialista moderno, prospero, forte, democratico, civile, armonioso e grande», ha scandito lentamente Xi, pugno destro alzato e mano sinistra su una copia in pelle rossa della Carta.
EPILOGO SCRITTO già cinque anni fa, quando venne eliminato il vincolo dei due mandati per la figura presidenziale, incarico tradizionalmente cerimoniale. Eppure quello arrivato durante le «due sessioni» è un passaggio storico, Xi è il primo a ottenere il terzo mandato per tutte e tre le cariche apicali: segretario generale del Partito comunista, presidente della Repubblica e presidente della Commissione militare centrale, altro incarico che gli è stato confermato ieri mattina.
Significativo il modo in cui Xi è arrivato al risultato. Al XX Congresso ha ridisegnato il Partito a sua immagine e somiglianza, con un Comitato permanente composto solo da fedelissimi. Ora fa (quasi) lo stesso a livello governativo e statale.
Lo zar dell’anticorruzione Zhao Leji, ex capo della Commissione centrale per l’ispezione disciplinare, è diventato il presidente dell’Assemblea nazionale del popolo.
Oggi tocca a Li Qiang: l’ex capo di gabinetto di Xi nella provincia dello Zhejiang diventerà premier al posto di Li Keqiang. He Lifeng sarà vicepremier e in seguito potrebbe guidare la nuova Amministrazione nazionale di regolamentazione finanziaria, che sarà responsabile di tutte le politiche e attività finanziarie a esclusione del settore dei titoli.
PARZIALE concessione con la nomina a vicepresidente di Han Zheng, un tempo componente della cosiddetta «cricca di Shanghai» dell’ex segretario generale Jiang Zemin.
Xi ottiene risultati importanti non solo sugli uomini, ma anche su prassi interne e postura esterna. Sempre ieri è stata approvata la riforma che riorganizza l’apparato del Consiglio di stato. Accorpate competenze di diversi organi in nuove commissioni centrali con due obiettivi: razionalizzare le risorse e decidere più in fretta sui temi strategici come economia e tecnologia.
Il testo comprende anche la possibilità di una «corsia preferenziale» per l’approvazione più rapida di leggi in «tempi di emergenza».
Strumento che ben si sposa con il cambio di prospettiva che Xi pare voler imprimere alla politica estera cinese. Una modifica in realtà graduale, che dalla maggiore interconnessione globale promossa dalla Belt and Road lanciata nel 2013 arriva ora a un parziale superamento della celeberrima dottrina di Deng Xiaoping: «Osserviamo con calma, manteniamo le posizioni, affrontiamo le cose con calma, nascondiamo i punti di forza e aspettiamo il nostro tempo, nascondiamo le nostre debolezze e non rivendichiamo mai il comando».
ALCUNI ANALISTI come Moritz Rudolf di Yale sostengono che Xi abbia proposto una nuova formula nel suo discorso alla Conferenza politica consultiva dei giorni scorsi, a cui i media cinesi hanno dato grande rilevanza: «Manteniamo la calma e la determinazione, progrediamo nella stabilità, raggiungiamo proattivamente gli obiettivi, stiamo uniti e osiamo combattere».
Concetti già espressi al XX Congresso, quando Xi aveva lasciato intendere che il «ventennio di opportunità strategiche» profetizzato da Jiang lascerà il posto a «sfide senza precedenti» e «acque tempestose».
Per navigarle, il Partito ritiene che ci voglia una mano ferma e una presenza più attiva sulla scena internazionale. Perfetto esempio l’inedito ruolo di mediazione giocato nell’accordo tra Arabia saudita e Iran, che proietta Pechino come «garante di stabilità» in ottemperanza al concept paper da poco lanciato sulla Global Security Initiative.
Le «acque tempestose» rischiano di essere soprattutto quelle dello Stretto di Taiwan. A poche ore dall’ufficialità del terzo mandato di Xi, è stato confermato il doppio transito negli Usa di Tsai Ing-wen.
IL 30 MARZO la presidente taiwanese riceverà il «premio per la leadership globale» del think tank Hudson Institute, in precedenza assegnato tra gli altri a Henry Kissinger. Qualche giorno più tardi incontrerà lo speaker Kevin McCarthy in California e terrà un discorso alla Reagan Library.
Contestualmente, il ministero della Difesa di Taipei ha confermato per la prima volta colloqui per la possibile creazione di un deposito di armi statunitensi in territorio taiwanese. Difficile che Pechino non reagisca. Come mostrato alle «due sessioni», il terzo mandato di Xi ha una visione fosca dei rapporti con gli Stati uniti. La speranza è che il verbo «combattere» resti figurato.
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