Dopo i sorrisi mostrati a Bali al G20, tocca alle strette di mano e al business sul Golfo. Archiviati i funerali di Jiang Zemin e le proteste con un «drammatico» allentamento delle restrizioni anti Covid, Xi Jinping compie un nuovo passo della diplomazia cinese in Medio Oriente. Segnando un punto ai danni degli Stati uniti.

IL LUNGO TAPPETO VIOLA su cui ha camminato Xi sulla pista d’atterraggio di Riyad era molto più morbido del terreno minato su cui ha dovuto muoversi Joe Biden durante il suo viaggio in Arabia Saudita di luglio.
Se il presidente americano non era riuscito a ottenere un tetto ai prezzi del petrolio, il leader cinese ha subito siglato 34 accordi bilaterali. Energia e idrogeno, ovviamente, ma anche fotovoltaico e Information Technology. E ancora: trasporti, logistica, sanità, cloud. Per un valore di circa 30 miliardi di dollari. Il tutto è avvenuto al palazzo reale al-Yamama, dove il principe Mohammad bin Salman ha fatto gli onori di casa. Xi ha definito «una priorità» lo sviluppo delle relazioni con Riyadh, prima di ricevere un dottorato onorario dall’Università Re Saud.
La Cina è già il principale partner commerciale dell’Arabia Saudita. E la bilancia è a favore di Riyad: 57 miliardi di esportazioni contro 30,3 miliardi di importazioni. L’Arabia Saudita è il primo fornitore di petrolio della Cina. Nei primi 10 mesi del 2022 Pechino ha sborsato 55 miliardi per 1,77 milioni di barili al giorno. Il colosso saudita Aramco ha annunciato nei mesi scorsi la costruzione di una raffineria da 10 miliardi di dollari nel nord-est della Cina. Il principe ereditario considera Pechino un partner fondamentale per il suo programma Vision 2030 e sta cercando di coinvolgere le imprese cinesi in ambiziosi megaprogetti destinati a diversificare l’economia dai combustibili fossili. Tra questi la costruzione della futuristica metropoli Neom.

MA, COME GIÀ ACCADUTO per il viaggio di settembre a Samarcanda per il summit dello Sco, Xi ha una prospettiva regionale. Oggi va infatti in scena il primo vertice bilaterale tra Cina e paesi arabi. Tra gli altri, presenti l’egiziano Abdel Fattah al-Sisi, il tunisino Kais Saied, il sudanese Abdel Fattah al-Burhan, l’iracheno Mohammed Shia al-Sudani, il marocchino Aziz Akhannouch, il libanese Najib Mikati e il palestinese Mahmoud Abbas. Così come in Asia centrale, Pechino si proietta da “garante di stabilità” economica e politica. Nel 2021, il volume degli scambi tra paesi arabi e Cina ha superato i 300 miliardi di dollari, un terzo in più rispetto al 2020. E quest’anno la cifra è destinata a salire in modo netto: aveva raggiunto gli stessi livelli già dopo il terzo trimestre. Aumentano anche i rapporti tech. A settembre una società di proprietà del fondo sovrano dell’Arabia Saudita ha annunciato una joint venture con SenseTime per costruire un laboratorio di intelligenza artificiale. Pechino ha inoltre venduto droni armati agli Emirati Arabi Uniti e delle sue aziende ne produrranno anche in Arabia Saudita.

QUESTO NON SIGNIFICA che i paesi del Golfo possano fare a meno delle armi acquistate da decenni dagli Usa, ma intanto stanno uscendo dall’ombra di Washington. La Casa bianca ha mandato un messaggio nemmeno troppo velato con l’immunità concessa a bin Salman sull’omicidio Khashoggi. Ma i paesi arabi, in primis Riyad, sono delusi dalla linea tenuta da Biden sull’Iran, con cui la Cina ha siglato una partnership strategica di 25 anni nel 2021. Non un ostacolo per i paesi arabi, che vogliono stringere ulteriormente i rapporti con un partner più propositivo sul fronte commerciale e meno invasivo su quello dei diritti.